diritto d'autore

La Cassazione fa il punto sul concetto di parodia nel nostro ordinamento

Laura Bussoli - Senior Associate

Eleonora Carletti - Associate

Il 30 dicembre 2022, con sentenza n. 38165, la Corte di Cassazione si è pronunciata, fra l’altro, sulla legittimità di uno spot pubblicitario avente come protagonista il personaggio di fantasia Zorro. In tale contesto la Suprema Corte ha affrontato alcuni temi particolarmente cari al diritto d’autore, quali la tutela dei personaggi di fantasia indipendentemente dall’opera di cui essi fanno parte ed il riconoscimento, a che condizioni ed entro quali limiti, dell’opera parodistica nel nostro ordinamento. La questione su cui si pronunciata la Corte di Cassazione prende le mosse dalla diffusione, di una campagna pubblicitaria di una nota acqua minerale (“Brio Blu”) che vedeva come protagonista il celebre personaggio di Zorro, nato dalla fantasia dello scrittore Johnston McCulley nel 1919 e su cui la società statunitense Zorro Productions Inc. vanta i diritti d’autore, oltre ad altri diritti di proprietà intellettuale che la stessa non ha mancato di far valere.

Nello spot “incriminato”, Zorro veniva utilizzato, in chiave comica e satirica, per pubblicizzare un prodotto (l’acqua). A fronte quindi di tale utilizzo del personaggio di Zorro, evidentemente avvenuto in assenza di autorizzazione, la società americana ha convenuto in giudizio la società produttrice di acque minerali lamentando la violazione dei propri diritti d’autore sul personaggio di Zorro, oltre ad una lunga serie di violazioni legate appunto alla tutela delle sue privative industriali.

A valle di un primo grado di giudizio, ove il Tribunale di Roma aveva condannato la società convenuta a risarcire la Zorro production Inc. per la violazione inter alia del proprio diritto d’autore, e di un secondo grado, in cui, al contrario, la Corte di Appello, aveva negato invece tale risarcimento, sulla base della caduta – secondo i giudici - in pubblico dominio del personaggio di Zorro (sul quale quindi non vi sarebbero stati validi diritti d’autore), la Corte di Cassazione ha messo ordine e ha fissato alcuni punti molto importanti in materia di diritto d’autore, ed in particolare sull’utilizzo parodistico di un’opera (o di un personaggio) su cui – evidentemente - siano ancora validi ed esistenti i diritti d’autore.

Innanzitutto, quindi la Corte di Cassazione ha escluso il venir meno (o caduta in pubblico dominio) dei diritti d’autore sull’opera e sul personaggio di Zorro, ritenendo applicabile, anche alle opere straniere pubblicate in Italia, l’art. 25 della nostra legge sul diritto d’autore (L. 633/1941 “LDA”) che prevede la nota tutela autorale fino al settantesimo anno dopo la morte dell’autore.

In secondo luogo, e questo è il primo aspetto importante della decisione in commento, ha chiarito il contenuto e i limiti della parodia nel nostro ordinamento.

Premesso che il nostro ordinamento non prevede espressamente fra le cd. “eccezioni” alla tutela del diritto d’autore, la “parodia”, secondo la Corte di Cassazione questa trova, invece, pieno riconoscimento nel nostro sistema attraverso la previsione di cui all’art. 70 della legge sul diritto d’autore, “come manifestazione del pensiero”: secondo la Cassazione infatti, “la liceità della parodia dell'opera o del personaggio creati da altri trova quindi il proprio fondamento nell'utilizzazione libera di cui al cit. art. 70, comma 1, L. n. 633/1942” che consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico, “se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera”.

Secondo la Corte di Cassazione, innanzitutto non è affatto necessario, ai fini del suo riconoscimento – e quindi dell’esimente – che la parodia si presenti come un “elaborazione creativa” o originale dell’opera parodiata ai sensi dell’art. 4 LDA, posto che l’agganciamento all’opera principale è elemento congenito e fondamentale della parodia stessa. Peraltro, se così fosse, sottolinea la Suprema Corte, sarebbe necessario di volta in volta ottenere l’autorizzazione dell’autore dell’opera originaria che difficilmente acconsentirebbe al “travisamento comico di questa”.

Inoltre, e questo è il secondo punto della sentenza che pare avere particolare rilievo, il riferimento contenuto nell’art. 70 Lda “purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera” non va affatto interpretato, come ha erroneamente fatto la Corte di Appello di Roma, nel senso di “scopo commerciale o di lucro”.

Le libere utilizzazioni consentite dall’art. 70 della legge sul diritto d’autore – compresa la parodia – sembrano quindi non essere escluse in presenza di un fine di lucro o di uno sfruttamento commerciale che l’autore della parodia può perseguire, anche collateralmente, ma solo in presenza di un rapporto concorrenziale tra l’opera protetta e parodiata e la parodia stessa.

In definitiva, la liceità della parodia viene rivenuta dalla Corte di Cassazione, oltre che nella libera manifestazione del pensiero, nella strumentalità di essa rispetto al fine parodistico e satirico che persegue (non deve cioè, avere finalità e contenuti meramente denigratori e svilenti dell’opera principale o di un suo personaggio) e nell'assenza di un rapporto concorrenziale con l'opera protetta che farebbe invece discendere dalla parodia un illecito sfruttamento dell’opera medesima.

Questa importante interpretazione della parodia nel nostra ordinamento si inserisce perfettamente nel solco interpretativo della Corte di Giustizia che da tempo si è espressa nel senso di cercare bilanciamento ed un equilibrio fra interessi in parte contrapposti, quali sono quelli di coloro che sono titolari dei diritti di riproduzione e di comunicazione al pubblico dell'opera e la libertà di espressione dell'utente di un'opera protetta, il quale si avvalga dell'eccezione per parodia (Corte Giust. UE, C-201/13, cit., 34).

Il successo commerciale di un articolo di moda non comporta automaticamente il riconoscimento della protezione del diritto d'autore (in assenza di prove di creatività e valore artistico)

La tutela legale delle creazioni degli stilisti conta diversi mezzi: dalla concorrenza sleale alla tutela del design, ai marchi di forma, alla tutela offerta dalla legge sul diritto d'autore (L. n. 633/1941): questi strumenti offrono diversi tipi di protezione e possono essere utilizzati solo se vengono soddisfatti specifici requisiti, che devono sempre essere provati.

È comune in questo campo vedere i marchi di moda che cercano di "vestire" i loro prodotti con una varietà di titoli di proprietà intellettuale, registrandoli, per esempio, come marchi di forma o come disegno industriale, al fine di aumentare il livello di protezione contro possibili imitazioni.

Tuttavia, sebbene la protezione mediante registrazione dei diritti di proprietà intellettuale nel settore della moda sia particolarmente diffusa, la natura temporanea dei diritti conferiti dalla registrazione può costituire un ostacolo alla tutelabilità di capi o accessori quando il loro successo commerciale è particolarmente duraturo: in questi casi, per poter accedere ad una protezione estesa nel tempo e che vada oltre le formalità richieste per la registrazione, è necessario dimostrare non solo il particolare gradimento del pubblico, ma anche la creatività e il valore artistico del prodotto per puntare alla tutela del diritto d'autore.

Un caso emblematico della possibile coesistenza di più livelli di protezione per gli articoli di moda e delle difficoltà legate alla prova della creatività e del valore artistico di un prodotto che aspira ad essere considerato copyright è quello recentemente trattato dal Tribunale di Milano.

Il caso riguardava la commercializzazione di borse che imitavano la famosa borsa "Le Pliage" di Longchamp, protetta da due registrazioni di marchio tridimensionale dell'Unione Europea che ne rivendicava la peculiare forma trapezoidale, e caratterizzata anche dalla combinazione di ulteriori elementi originali, quali la patta arrotondata, i manici tubolari e il contrasto di colore e materiali tra gli elementi in nylon e quelli in pelle.

L'attore sosteneva che il modello di borsa "Le Pliage" è stato creato nel 1993 ed è stato ancora commercializzato in tutto il mondo attraverso più di 1.500 punti vendita e anche online e chiedeva la tutela contro le imitazioni, invocando non solo la protezione prevista sulla base di registrazioni di marchi tridimensionali (ex artt. 2 e 20 C.P.I. e art.9 Reg. UE n. 2017/1001), ma anche la violazione dei diritti dell'autore e dei principi a tutela della concorrenza leale sul mercato (art. 2598 c.c.).

Il Tribunale ha innanzitutto riconosciuto la violazione dei marchi europei tridimensionali dell'attrice nella misura in cui è stata accertata non solo la loro capacità distintiva dovuta alle modalità di utilizzo e presentazione del marchio stesso e alle informazioni e suggestioni veicolate attraverso la pubblicità e la percezione che la forma determina sul pubblico dei consumatori, ma anche l'assunzione, da parte delle borse imitative, di tutti gli elementi distintivi del modello "Le Pliage".

Per quanto riguarda l'invocata tutela del diritto d'autore, facendo riferimento alla propria giurisprudenza sul punto, la sentenza ha stabilito che non era possibile individuare nel caso di specie l'effettiva esistenza del carattere artistico necessario affinché la forma della borsa potesse godere di tale tutela.

I giudici hanno rilevato che, a parte l'innegabile successo commerciale ottenuto sul mercato, l'attore non aveva allegato gli elementi che avrebbero dovuto confermare la presenza di un valore artistico nella creazione dell'aspetto esterno del modello di borsa in questione.

In altre parole, non vi era alcuna prova dei requisiti di creatività e valore artistico che presuppongono l'applicabilità dell'art. 2.10 della legge sul diritto d'autore.

Come è noto, il valore artistico può essere desunto da una serie di parametri oggettivi, quali il riconoscimento da parte di ambienti culturali ed istituzionali dell'esistenza di qualità estetiche ed artistiche, l'esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, l'assegnazione di premi, l'acquisizione di un valore di mercato così elevato da trascendere quello legato alla sola funzionalità o la creazione da parte di un artista noto e, in assenza di prova, non è possibile accedere alla tutela prevista dalla legge sul diritto d'autore.

Il singolo di Prince “The most beautiful girl in the world”: confermato anche il risarcimento del danno morale per il plagio dell’opera.

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La vicenda giudiziaria non è recente, anzi (il tutto ha inizio nel 1995..), ma è di pochi giorni fa l’ultima parola della Corte di Cassazione in merito al se ed al quanto del risarcimento dovuto ai signori Bruno Bergonzi e Michele Vicino da parte degli eredi della celebre pop star americana, Prince Rogers Nelson, meglio noto come Prince, per avere quest’ultimo con il noto brano del “The most beautiful girl in the world” violato i diritti d’autore dei primi.

Il 25 gennaio 2021 infatti, la Corte di Cassazione si è espressa sul ricorso presentato dagli eredi di Prince (nel frattempo deceduto) avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 2018 che riconosceva ai due autori italiani, oltre risarcimento dei danni economici (in Euro 956.608,00…), anche il ristoro morale, seppur nella minor cifra di Euro 40.000,00, per la “frustrazione artistica” sofferta dagli stessi autori in conseguenza del plagio della loro opera originale.

Ma facciamo un passo indietro: nel 1995 Bruno Bergonzi e Michele Vicino insieme a Edizioni Chappell s.r.l. - rispettivamente autori e cessionaria dei diritti di sfruttamento della canzone “Takin' me to paradise” - agivano avanti al Tribunale di Roma per vedere accertato il plagio della suddetta opera musicale da parte Prince Rogers Nelson, di Controversy Inc. e di Fortissimo Gruppo Editoriale s.r.I., rispettivamente autore e cessionarie dei diritti di utilizzazione economica della canzone diffusa con il titolo “The most beautiful girl in the world”, con conseguente condanna al risarcimento dei danni economici e morali.

Il 30 gennaio 2003, il Tribunale di Roma rigettava la domanda di Bruno Bergonzi, Michele Vicino e di Edizioni Chappell s.r.l..

Tuttavia (anche se dopo 7 anni..) la pronuncia  del Tribunale era riformata in appello: la Corte di Roma accertava infatti il plagio, inibiva la diffusione del brano nel territorio dello Stato italiano e condannava in solido Prince e Controversy Inc. al risarcimento del danno liquidato nella misura di Euro 956.608,00 a favore di Bergonzi e Vicino; Fortissimo Gruppo Editoriale era invece condannata al risarcimento nella minor somma di euro 6.888,40; nella prima sentenza la Corte d’Appello rigettava, tuttavia, la domanda di risarcimento del danno per violazione del diritto morale d'autore ritenendo insufficiente l’allegazione delle prove a supporto di tale danno da parte degli attori.

Tale pronuncia veniva impugnata e con sentenza del 29 maggio 2015, n.11225, la Cassazione si pronunciava sia con riguardo all’estensione degli effetti esplicati dalla sentenza di condanna limitatamente al territorio italiano sia per quanto concerne il mancato riconoscimento della violazione del diritto morale d’autore, ritenendo che quest’ultimo avrebbe invece dovuto trovare spazio e riconoscimento.

In particolare, la Corte di Cassazione riteneva apodittica la motivazione con cui la Corte di Appello di Roma valutava insufficienti le prove poste a sostegno del patito danno morale dagli autori nei loro atti difensivi, ribadendo il noto principio, applicabile quindi anche alla violazione del diritto morale d’autore, secondo cui in caso di accertata violazione dello stesso, il danno sofferto dall’autore deve considerarsi in re ipsa e come tale deve essere dimostrato solo nella sua estensione, senza che incomba all’attore altra prova. È sufficiente, secondo la Cassazione, a fondare la domanda volta alla condanna al risarcimento del diritto morale, la “frustrazione artistica” lamentata e subita dagli autori a fronte del plagio.

Ebbene nel 2018, Corte di appello di Roma pronunciava sentenza con cui inibiva all'eredità giacente di Prince e a Controversy ogni ulteriore riproduzione del brano “The most beautiful girl in the world” e, sulla base del rinvio della Cassazione, li condannava, in via equitativa, al pagamento della somma di Euro 40.000,00 ciascuno, oltre interessi a titolo di risarcimento morale.

Pareva dover cessare così la vicenda, ma gli eredi della celebre pop – star hanno nuovamente impugnato la decisione lamentando – per quanto qui di interesse -  l’errata applicazione delle norme sul diritto morale d’autore: tale ultimo ricorso è stato interamente rigettato dalla Corte di Cassazione con la recente pronuncia la quale ha confermato la correttezza del’iter argomentativo seguita dalla Corte di Appello nella liquidazione del danno per violazione del diritto morale d’autore.

La sentenza, che chiude definitivamente la vicenda di The Most Beautiful girl in the world, riguarda non solo, la già ampiamente riconosciuta facoltà del giudice di merito di liquidare in via equitativa il danno, anche morale, conseguente alla violazione del diritto d’autore, ma soprattutto il sicuro collegamento che può e deve sussistere – dice la Corte - fra l’entità del danno morale d’autore (e del relativo risarcimento) e le dimensioni spazio-temporali della condotta plagiaria, e quindi, in definitiva, la diffusione e il successo dell’opera in contraffazione.
La limitazione degli effetti della pronuncia del giudice italiano al solo territorio italiano, anziché a tutti i paesi del mondo dove il brano in contraffazione era stato diffuso – ritiene la Corte di Cassazione del 2015 – essere corretto: non esiste infatti, in materia di diritto d’autore nel caso di specie, alcuna norma che consenta al giudice nazionale di estendere gli effetti della sua pronuncia al di là dei confini nazionali dello stato in cui la decisione è assunta. Tuttavia, ritiene la Corte, la pronuncia del giudice di appello è errata e merita di essere riformulata, nella parte in cui “esclude implicitamente che la stessa pronuncia possa avere esecuzione anche in altri Stati esteri previa delibazione della stessa da parte dei giudici o delle autorità competenti”.

La pronuncia del 2015 inoltre ribadisce il noto principio in materia di diritto d’autore per cui il danno derivante dalla violazione del diritto d’autore è in re ipsa senza che incomba all’attore altra prova se non quella della sua estensione.

Fotografia e Moda. Clovers ottiene una pronuncia favorevole dal Tribunale di Milano in materia di indebito utilizzo di una fotografia.


Uno degli abiti della collezione.

Uno degli abiti della collezione.

È di pochi giorni fa la sentenza con cui il Tribunale di Milano ha condannato una nota società di moda italiana (la Antonio Marras Srl) al risarcimento del danno in favore del fotografo statunitense, Daniel J. Cox, per la riproduzione non autorizzata di una fotografia di quest’ultimo su dei capi di abbigliamento.

Daniel J Cox è tra i più affermati fotografi naturalistici nonché autore di diverse copertine della rivista National Geographic. Negli anni passati, il fotografo ha realizzato una nota fotografia raffigurante un lupo ululante sotto una bufera di neve.

La controversia sorge quando la società di moda, convenuta poi nel giudizio avanti al tribunale di Milano, utilizza senza consenso dell’autore tale immagine per sviluppare la sua collezione di moda.

L’opera fotografica di Daniel J, Cox. Copyright Daniel J. Cox.

L’opera fotografica di Daniel J, Cox. Copyright Daniel J. Cox.

L’immagine oggetto della controversia, che il Tribunale ha riconosciuto quale opera artistica tutelabile ai sensi della Legge sul Diritto d’Autore risultava in particolare chiaramente riprodotta su una serie di capi donna, distribuiti e commercializzati nel mondo e su alcune piattaforme d’abbigliamento on line, tra le quali quella gestita dall’altra convenuta.

Esaurita senza successo la fase stragiudiziale volta alla composizione della lite, il fotografo ha invocato la tutela inibitoria contro l’utilizzo non autorizzato dell’immagine nonché per il risarcimento del danno quantificato su istanza dello stesso nel cd. prezzo del consenso.

Il Collegio ha ritenuto che l’immagine stampata sul capo d’abbigliamento realizzato dalla convenuta, oltre a coincidere con lo scatto fotografico dell’attore, possedesse quel carattere artistico e creativo necessario per accedere alla tutela “rafforzata” prevista dalla Legge sul diritto d’autore.

Come noto, la legge italiana sul diritto d’autore attribuisce alle fotografie un duplice livello di protezione, distinguendo tra opere fotografiche (o fotografie artistiche) e fotografie semplici.

Il discrimine – non sempre agevole nella pratica - viene tracciato in prima istanza dalla lettera della legge: gli articoli da 87 ss lda definiscono come fotografie semplici “le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche” e riconoscono alle stesse tutela in quanto oggetto di un cd. “diritto connesso”.

Manca per converso, un’espressa definizione legislativa di opera fotografica (se non per quel che si può ricavare “a contrario” dalla definizione precedente) la quale è invece demandata al valutazione “pratica” del giudice sulla base di una serie di indici.

Le fotografie artistiche dunque accedono alla tutela autorale e sono protette fino a 70 dopo la morte del loro autore, laddove invece, le fotografie semplici, godono di una tutela limitata (20 anni dalla data di produzione) ed al fotografo spetta unicamente un equo compenso in caso di utilizzo illegittimo.

Un primo e fondamentale snodo della decisione riguarda il riconoscimento del valore artistico della fotografia: a parere del Collegio giudicante nel caso di specie, tale riconoscimento risiede “nella capacità creativa dell’autore, vale a dire nella sua impronta personale, nella scelta e studio del soggetto da rappresentare (Cass. Civ. 21 gennaio 2000, n. 8425), così come nel momento esecutivo di realizzazione e rielaborazione dello scatto, tali da suscitare suggestioni che trascendono il comune aspetto della realtà rappresentata (Trib. Roma, Sez. Spec. Impresa, 2 maggio 2011; App. Milano, 7 novembre 2000)”.

La scelta di ritrarre l’animale nel suo ambiente naturale ed in condizioni climatiche avverse rende lo scatto “frutto di studio e di attenta analisi fotografica da parte dell’autore” e contribuisce al riconoscimento del valore artistico della stessa secondo il Tribunale.

È anche la tecnica che viene in questo caso in rilievo al fine del corretto inquadramento dell’immagine nell’ambito delle opere fotografiche tutelate e tutelabili: “una sapiente sfocatura dell’ambiente circostante, esaltando così l’espressione del soggetto rappresentatoed evocando, in questo modo, peculiari suggestioni nell’osservatore tali da travalicare la mera rappresentazione grafica dell’animale (…) “un sapiente uso del chiaroscuro e l’utilizzo, con finalità creative, dei giochi di luce”.

A fare propendere il Collegio per la valutazione in senso artistico dell’opera vi sono in via “ausiliaria” anche lo specifico riconoscimento autorale in territorio statunitense dell’artista e la collocazione dell’immagine all’interno di un’opera monografica alla quale è stata data dignità di pubblicazione e stampa.

Una volta quindi accertata la natura artistica dell’opera, l’utilizzo da parte della società convenuta a fini commerciali della fotografia, mediante la sua collocazione su un capo di abbigliamento inserito nella collezione donna, in assenza di autorizzazione alcuna da parte dell’autore, “costituisce aperta violazione delle privative autorali, cui consegue il diritto del fotografo ad ottenere il risarcimento del danno”.

È interessante notare come il Tribunale rigetti le eccezioni sollevate dal convenuto circa la presunta legittimità dell’utilizzo dello scatto, essendo lo stesso reperibile sul motore di ricerca Google.

“Ed invero” – precisa il Collegio – “la mera disponibilità sul web di una fotografia non costituisce certamente presunzione di assenza di privative autorali, gravando semmai sull’internauta l’onere di accertare l’esistenza, o meno, di diritti in capo a soggetti terzi”.

Il passaggio appare fondamentale nell’era di massima espansione della comunicazione e della promozione da parte delle aziende tramite social network che fanno massivo uso delle immagini.

Altro aspetto che ha rivestito una certa importanza, è stato quello afferente la “responsabilità del distributore” della merce contraffatta. A tal proposito, infatti, il Collegio ha rilevato la sussistenza della culpa in vigilando dello stesso in quanto quest’ultimo non ha fornito alcuna dimostrazione di aver ottenuto, da parte della Antonio Marras specifica attestazione circa la piena titolarità dei diritti di sfruttamento commerciale dei capi d’abbigliamento e delle immagini sugli stessi riprodotte.

Il Collegio, in conclusione, ha deciso che l’opera del fotografo Daniel J. Cox debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia, condannando le convenute, in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore dell’attore e disponendo la pubblicazione del dispositivo della sentenza a cura e a spese delle parti convenute sul periodico Vanity Fair.

Attraverso questa pronuncia il Tribunale di Milano ha affrontato una pluralità di questioni oggetto di continui dibattiti tra gli esperti del mondo della proprietà intellettuale. Rimane vivido, dunque, l’auspicio di continuare ad ottenere sempre più risposte.

La Ferrari GTO è un'opera tutelata dal diritto d'autore.

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Il Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di impresa ha recentemente accodato la tutela del diritto d’autore al modello di Ferrari forse più conosciuto ed apprezzato di sempre: la 250 GTO.

Il numero, 250, sta per la cilindrata di ciascun cilindro in centimetri cubi del motore V12 3000 cc di cilindrata. GTO sta per "Gran Turismo Omologata". Tale sigla non verrà poi utilizzata per parecchi anni fino alla presentazione nel 1984 della Ferrari 288 GTO.

Per il Collegio, interpellato dalla Ferrari per difendere il modello da un tentativo di riproduzione da parte di una società di Modena, «la personalizzazione delle linee e degli elementi estetici, hanno fatto della Ferrari 250GTO un unicum nel suo genere, una vera e propria icona automobilistica». «Il suo valore artistico – prosegue l’ordinanza - ha trovato oggettivo e generalizzato riconoscimento in numerosi premi e attestazioni ufficiali», in «copiose pubblicazioni» e nella riproduzione «artistica» su monete e sotto forma di «sculture», periodicamente esposte nei musei.

Il Tribunale ha così emesso un’ordinanza che inibisce alla società specializzata in tuning di riprodurre la forma della 250GTO in rendering e in modelli di autovetture.

L’azienda resistente era infatti pronta a lanciare sul mercato una decina di repliche della 250 GTO, al prezzo circa di 1 milione di euro l’una, che riproducevano (aggiornandolo) il leggendario modello anni ’60.

LA TUTELA DELLE FOTOGRAFIE TRA OPERE ARTISTICHE E SEMPLICI.

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Recentemente il Tribunale di Milano si è nuovamente espresso sul concetto di opera fotografica artistica e fotografia semplice.

 La vicenda trae spunto dalla presunta violazione del diritto d’autore di una fotografia denominata “Human Feelings as Drugs”, consistente nella realizzazione di fotografie, stampe e poster riproducenti fialette di medicinali di svariati colori, recanti la scritta “empathy”, “hope”, “love”, “peace” e “joy” con riportate le frasi espressive del relativo sentimento o dell’emozione. Nel

progetto, l’artista intendeva realizzare l’idea di assumere “sentimenti come medicine”, in modo da “permettere al paziente un istantaneo risveglio della percezione e un reintegro all’interno del flusso vitale delle emozioni”.

 L’attore lamentava l’illecita riproduzione da parte della convenuta di una serie di ciondoli -abbinati a collane e braccialetti – che avrebbero riprodotto le proprie fialette, con identiche denominazioni dei sentimenti, accompagnate dalle stesse frasi illustrative. Ha dunque invocato l’inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione.

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 Il Tribunale ha ribadito che In materia di opere fotografiche, il carattere artistico presuppone l’esistenza di un atto creativo in quanto espressione di un’attività intellettuale preminente rispetto alla mera tecnica materiale. La modalità di riproduzione del fotografo deve trasmettere cioè un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla rappresentazione oggettiva cristallizzata, rendendo cioè una soggettiva interpretazione idonea a distinguere un’opera tra altre analoghe aventi il medesimo oggetto. Il requisito della creatività dell’opera fotografica sussiste ogniqualvolta l’autore non si sia limitato ad una riproduzione della realtà, ma abbia inserito nello scatto la propria fantasia, il proprio gusto, la propria sensibilità, così da trasmettere le proprie emozioni.

 In materia di opere fotografiche, la natura artistica della riproduzione non può desumersi dalla notorietà del soggetto o dell’oggetto che è ritratto, giacché il valore dell’opera artistica si apprezza in virtù di canoni di natura formale – che esprimano in modo assolutamente caratteristico ed individualizzante la personalità dell’autore – dovendo invece il relativo giudizio prescindere dall’oggetto o dal soggetto in sé riprodotto.

 Nel caso in esame il Tribunale ha escluso la natura artistica delle immagini litigiose essendo impossibile ravvisarne proprio quegli aspetti di originalità e creatività che risultano indispensabili per riconoscere la piena protezione ex art. 2 l. aut. A dire del tribunale l’attore non ha indicato precise inquadrature ovvero un'attenta selezione delle luci o ancora particolari dosaggi di toni chiari e scuri che il Collegio possa apprezzare. Non sembrano neppure qui rivenirsi quei peculiari indici che identifichino quell’impronta personale e peculiare del fotografo ovvero quella capacità di intervenire sul soggetto in modo tale da evocare suggestioni, che appunto, valgono a distinguere un’opera fotografica da una fotografia semplice.

 Il Tribunale si è inoltre soffermato sulla ulteriore violazione del diritto d’autore inteso come complessiva opera artistica escludendo il plagio della convenuta.

 A dire del collegio, la comparazione tra le due opere evidenzia decisive differenze, idonee a conferire un diverso pregio estetico, non sovrapponibile.

Il punto sulla proposta di riforma comunitaria sul diritto d'Autore.

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L'Unione Europea sta lavorando alla riforma della direttiva sul diritto d’autore. Uno dei maggiori problemi con la nuova proposta di riforma del copyright dell'UE è l'articolo 13, che stabilisce che i siti web che accettano i contenuti degli utenti (qualsiasi cosa, dai video ai commenti online) devono avere un "filtro di caricamento" che bloccherebbe tutti i contenuti protetti da copyright che vengono caricati dagli utenti.

Secondo la proposta le aziende dovrebbero ottenere una licenza per qualsiasi contenuto protetto da copyright che viene caricato sul proprio sito dai propri utenti. In altre parole, i siti Web sarebbero responsabili per qualsiasi contenuto che i loro utenti caricano sul sito.

Alcuni sostengono che i filtri non sarebbero in grado di riconoscere "usi legali" di contenuti protetti da copyright, anche se fossero efficaci al 100% nell'identificare se un contenuto è o meno protetto da copyright. In questa categoria entrano parodie e citazioni che tipicamente fanno riferimento a contenuti leciti permessi dalla legge sul diritto d’autore.

È quindi contestato se l’uso di filtri è di per se legale o se viola i diritti fondamentali alla privacy, alla libertà di espressione, alla libertà di informazione e alla libertà di condurre un'impresa.

Un altro articolo in discussione è la cosiddetta proposta "link tax" nell'articolo 11 della direttiva sulla riforma del copyright, un'altra idea che non è solo apparentemente negativa, ma ha anche fallito in paesi come Spagna e Germania, dove è già stato tentato. Invece di indurre aziende come Google o altri editori a pagare per i link, o estratti di articoli e anteprime, queste aziende hanno semplicemente smesso di collegarsi a contenuti provenienti da Germania e Spagna.

I critici ritengono che una tassa sul link ridurrebbe in modo significativo il numero di collegamenti ipertestuali che vediamo sul web, il che significa che i siti web saranno molto meno collegati tra loro.

Questi due articoli sembrano allo stato essere i più controversi ed i critici credono che la direttiva possa avere un impatto negativo sulle società extraeuropee operanti nell'UE.

IL PREZZO DEL CONSENSO.

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Recentemente il Tribunale di Torino si è espresso sul tema della pubblicazione di fotografie in un sito internet senza la preventiva autorizzazione dell’autore e il riconoscendo la quantificazione del risarcimento sulla base del principio del “prezzo del consenso”.

L’autore di alcune fotografie, accortosi che le stesse comparivano all’interno di una piattaforma web, ha chiesto, in primo luogo, di essere riconosciuto titolare dei diritti di sfruttamento economico sulle stesse e, in secondo luogo, che gli fossero riconosciuti e, soprattutto, che fossero quantificati i diritti di sfruttamento economico allo stesso spettanti.

Il titolare delle fotografie chiedeva altresì che fossero riconosciuti e sanzionati anche gli atti di concorrenza sleale, nella forma della concorrenza parassitaria, posti in essere per aver, l’illegittimo utilizzatore della fotografie, contrariamente alle regole di correttezza professionale, sfruttato sistematicamente il lavoro del titolare delle stesse e per aver posto in essere attività potenzialmente idonee a privare la concorrente di quote di mercato.

Il Tribunale di Torino nel dirimere la controversia ha statuito non solo che l’illegittima pubblicazione in un sito web di fotografie altrui da parte di terzi non autorizzati costituisce violazione dei diritti di sfruttamento economico, ma anche che tale violazione debba essere sanzionata applicando il principio del “prezzo del consenso”.

Più precisamente, secondo tale criterio, la sanzione da comminare per l’illegittimo sfruttamento dei diritti d’autore deve essere quantificata sulla base della somma che il titolare dei diritti avrebbe percepito quale corrispettivo a seguito del raggiungimento di un accordo con l’utilizzatore. E la quantificazione del “prezzo del consenso” deve basarsi sul corrispettivo in precedenza richiesto dal titolare per la cessione di ogni singola fotografia, a favore di terzi soggetti.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di risarcimento del danno in relazione ai presunti atti di concorrenza sleale nella forma della concorrenza parassitaria, i giudici torinesi hanno stabilito che, nonostante nel caso in esame possano essere riscontrate plurime condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, nonché dirette al sistematico sfruttamento del lavoro della titolare dei diritti di sfruttamento sulle fotografie, alcun danno patrimoniale ed extra-patrimoniale potrebbe essere riconosciuto in capo allo stesso poiché non adeguatamente provato.

LA TUTELA DELL'OPERA DI NATURA BIOGRAFICA

Si possono liberamente scrivere, pubblicare o raccontare le vite di personaggi famosi?

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Sul punto è recentemente intervenuto il Tribunale di Milano (Sezione Specializzata delle Imprese)  per dirimere un contenzioso tra due autori (Antonio Prestigiacomo e Marcello Sorgi) sulla vita del Principe Siciliano Raimondo Lanza di Trabia, l’uomo che inventò il calciomercato, che fu l’amante di Rita Hayworth e amico di Onassis.

In uno dei passaggi più interessanti, il Tribunale ha stabilito che nel caso di opere biografiche di personaggi noti, appartengono al patrimonio comune i fatti e le vicende che li hanno riguardati, che non sono, in sé, autonomamente monopolizzabili. La tutela autoriale cade invece sulle scelte formali, sulle tecniche stilistiche e redazionali, attraverso le quali l’autore li veicola.

Nel caso in esame, il Tribunale ha stabilito che il testo dell’attore Antonio Prestigiacomo, “Il Principe irrequieto. La vita di Raimondo Lanza di Trabia” gode senz’altro della tutela autoriale. E ciò sia sotto il profilo dell’originalità sia sotto il profilo della novità. Quanto all’originalità, esso si configura infatti come il risultato personale dell’armonizzazione di fatti veri, anche storici, e fatti verosimili, organizzati e rielaborati stilisticamente con una tecnica particolare. Il testo è infatti il frutto dell’alternanza, nel tessuto narrativo, di interviste articolate in domande e risposte, chiaramente individuabili per la presenza del virgolettato, compiute dall’autore a vari personaggi che hanno avuto conoscenza diretta del Principe.

Tuttavia, il Tibunale ha stabilito che premessa l’identità del protagonista e di molti eventi narrati, si evidenzia una distanza tra i due racconti, tale da ritenere che si tratti di autonome opere creative, appartenenti a diversi generi, ciascuna singolarmente tutelabile.

L’opera di Prestigiacomo non può in conclusione ritenersi plagiata da quella di Marcello Sorgi e le opere biografiche di personaggi noti, non sono però con riferimento ai fatti e alle vicende che li hanno riguardati, di per sé non monopolizzabili.

Accuse di Plagio al Film La Forma dell'Acqua.

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Con l’avvicinarsi della notte degli Oscar, crescono le polemiche intorno ai film selezionati dall’Academy Awards in concorso per la prestigiosa statuetta. 

“La forma dell'acqua”, il film di Guillermo del Toro candidato a 13 premi Oscar, è accusato di plagio: la pellicola sarebbe basata - è la denuncia - sulla commedia del 1969 'Let Me Hear You Whisper' del premio Pulitzer Paul Zindel. L'azione legale avviata contro il regista, il produttore e la casa cinematografica del film è di David Zindel, il figlio ed erede del famoso drammaturgo, che senza mezzi termini li accusa di aver «senza vergogna copiato la storia, gli elementi e i personaggi» della commedia di suo padre, utilizzando addirittura le stesse parole.

 La parola ora spetta al giudice, chiamato a stabilire se le accuse di Zindel sono fondate. Non è comunque la prima volta che a Hollywood si accendono battaglie sulle accuse di plagio, soprattutto in presenza di film di atteso successo.

Il classico Western di Sergio Leone Per un pugno di dollari è una delle vette del suo genere, grazie anche all'incredibile performance attoriale di Clint Eastwood, un pistolero vagabondo che, durante il suo girovagare, finisce nel bel mezzo di un conflitto tra due famiglie in un piccolo villaggio al confine con il Messico. Sfortunatamente, il film è anche un remake non autorizzato del film di samurai di Akira Kurosawa La sfida del samurai. Kurosawa mandò a Leone una lettera dicendo: "Bel film, ma era il mio film", e lo citò in giudizio chiedendo una percentuale dei ricavi. I due si misero d'accordo per un rimborso di 100 mila dollari e del 15% dei profitti a livello mondiale.
Altro caso eclatante fu quello di Terminator. Harlan Ellison è uno degli autori più rognosi di tutto il mondo della fantascienza americana, e ormai si contano a dozzine le cause contro persone accusate di rubargli le idee. Ad ogni modo, la causa che intentò contro James Cameron per The Terminator fu leggermente diversa. Ellison scrisse un episodio di Oltre i limiti chiamato Demon With a Glass Hand, che raccontava la storia di un soldato robot che, travestito da umano, viene spedito indietro nel tempo. La Orion Pictures decise di pagare un indennizzo prima ancora che il caso arrivasse in tribunale, e Ellison ottenne soldi e venne accreditato nel film.

Da ultimo si segnale il caso de “Il principe cerca moglie”.  Nel 1982, il noto sceneggiatore Art Buchwald scrisse un trattamento per la Paramount intitolato Re per un giorno, nel quale il protagonista era un sovrano africano ricco e arrogante che viaggiava in America. Il protagonista avrebbe dovuto essere Eddie Murphy. La Paramount comprò il trattamento e impiegò qualche anno nel vano tentativo di trovare qualcuno che scrivesse la sceneggiatura, prima di abbandonare il progetto nel 1985. I diritti tornarono così a Buchwald, che li vendette alla Warner Brothers. In seguito la Paramount girò un film con Eddie Murphy il quale interpretava la parte di un ricco e ignorante sovrano africano in viaggio per gli Stati Uniti. Il film si intitolava Il principe cerca moglie. Buchwald non fu né pagato né accreditato, così fece causa ma la Paramount si accordò privatamente con lui per una cifra sconosciuta.

 

ANCHE UNA GUIDA DI VINI E' UN OPERA CREATIVA.

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Somiglianze “significative” tra la guida di Bibenda Editore - ex “Duemilavini”, oggi “Bibenda” - e “Vitae” dell’AIS. sia relative al formato fisico che nelle schede descrittive per i dati relativi alle aziende e alle loro produzioni, e “forti elementi di assonanza nella sequenza degli argomenti”: è con queste parole, presenti nel testo della sentenza emessa dai giudici della IX Sezione Civile del Tribunale di Roma, che si conclude il primo grado di giudizio relativo alla denuncia per plagio sporta da Bibenda Editore nei confronti di Ais, a valle della conclusione, nel 2015, della collaborazione tra Bibenda e l’Ais.

Subito dopo l’interruzione dei rapporti che avevano visto per anni Ais acquistare la guida Bibenda per distribuirla ai propri soci, l’Associazione diede alle stampe una sua guida, battezzata “Vitae”, che però apparve agli autori di “Bibenda” troppo simile, sotto una molteplicità di punti di vista, a quella da loro creata secondo criteri redazionali ben precisi. Criteri che, secondo la sentenza, sono sufficientemente simili a quelli adottati da Ais per “Vitae” da giustificare una sua condanna: il Tribunale ha accolto le istanze di Bibenda Editore e ha inibito la pubblicazione di future edizioni di “Vitae” a meno che queste somiglianze non vengano sostanzialmente eliminate. Ais è stata condannata, inoltre, a risarcire i danni (ancora da quantificare) in favore di Bibenda Editore.

Secondo la sentenza del Tribunale, “l’esame della guida pubblicata dalla convenuta (ais) evidenzia significative somiglianze con la guida Bibenda in relazione alle dimensioni del volume, al materiale utilizzato per la copertina, alla rilegatura e ai caratteri di stampa adoperati e al formato.

Ulteriori rilevanti somiglianze si colgono nelle schede descrittive delle aziende, in entrambe le guide si rinvengono, con la stessa sequenza e all’interno di un identico contesto strutturale e secondo una comune presentazione grafica, i dati relativi a nome azienda, indirizzo, sito internet, indirizzo mail, anno di fondazione, proprietà, bottiglie prodotte, ettari vitati, vendita diretta, visite all’azienda, pezzo introduttivo, nome vino, tipologia, uve, gradazione alcolica, prezzo, bottiglie prodotte, degustazione, vinificazione e abbinamento.

È comune, inoltre, la valutazione dei prodotti con simboli posizionati sul lato destro delle pagine.

Come già rilevato le due guide presentano forti elementi di assonanza nella sequenza degli argomenti (…)”.

In base a tali argomentazioni, il Tribunale ha accolto le domande proposte da Bibenda Editore e ha inibito all’Associazione Italiana Sommelier di pubblicare per le annualità future la guida Vitae, salvo adeguamenti idonei a differenziarla in maniera sostanziale dalla guida Bibenda.

Selfie Selvaggio

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I giudici statunitensi hanno recentemente messo fine alla battaglia giudiziaria sul selfie di Naruto, il macaco indonesiano che più di dieci anni fa spopolò sul web con un autoscatto. La decisione della Corte ha dato ragione a Slater, il proprietario della macchina fotografica, e ha rigettato le pretese di PETA, un’organizzazione no-profit statunitense che si occupa di diritti degli animali, che sosteneva le ragioni del macaco.

La bizzarra vicenda inizia nel 2011, quando David Slater, fotografo professionista, si trovava nelle foreste dell’Indonesia per immortalare alcune tra le più particolari specie animali. Imbattutosi in un branco di scimmie, lasciò per qualche momento incustodita la sua macchina fotografica. Fu così che un fotogenico macaco, Naruto, l’afferrò e iniziò a scattarsi centinaia di selfies. Alcuni, come capita anche alle migliori instagrammer, mossi e sfuocati, altri invece quasi perfetti. Il fotografo pubblicò una delle foto sul proprio blog e subito l’immagine diventò virale. Sulla scorta di un’interpretazione letterale della legge statunitense in tema di diritto d’autore, Wikimedia, la società americana proprietaria del dominio Wikipedia, decise allora di inserire l’immagine nella sua collezione di contenuti Wikimedia Commons, una raccolta di oltre 20 mila immagini e video pubblici e fruibili dalla collettività in quanto privi di diritti d’autore. Secondo la normativa americana, infatti, i diritti su una foto sono di titolarità del suo autore ovvero chi l’ha scattata e, in questo caso, si trattava di una scimmia. Salter si oppose alla libera divulgazione dell’immagine che riteneva essere sua a tutti gli effetti e fece nascere una vera e propria controversia giuridica in tema di proprietà intellettuale: se una scimmia fa una foto, di chi è la foto?

Nel corso degli anni la questione si è fatta sempre più complicata e sempre più assurda: la PETA, già nota per le sue battaglie provocatorie, ha fatto causa, a nome di Naruto, a Slater e anche a Blurb, una casa editrice che ha pubblicato il libro Wildlife Personalities, contenete, tra tante foto animali, anche quella di Naruto.

Sia Slater che Blurb hanno presentato un “motion for dismissal”: un documento che nel sistema legale statunitense serve a chi è accusato per spiegare che la causa nei suoi confronti è sbagliata e  basata su motivi inesistenti. In questo documento Slater scrisse, tra le altre cose, che “l’unico fatto rilevante in questa causa è che il querelante è una scimmia che fa causa per violazioni relative al copyright”. Secondo Salter, la PETA non può provare che il famoso selfie fu scattato proprio da Naruto e non da un’altra scimmia.

E, in effetti, i giudici gli hanno dato ragione, statuendo che i diritti sulla autoscatto siano suoi e non dell’animale.

Nonostante questo, però, l’organizzazione Peta e David Slater hanno trovato un accordo: il fotografo verserà all’organizzazione non-profit il 25% degli introiti derivanti dal proprio diritto d’autore sulla foto.

Continua la causa contro Facebook a Milano.

Il prossimo 4 aprile a Milano, davanti alla Corte d'Appello Civile, si aprirà la causa di secondo grado nei confronti di Facebook, condannata per la prima volta in Italia la scorsa estate per concorrenza sleale e per violazioni del diritto di autore sulla banca dati rappresentata da Faround, applicazione di geolocalizzaizone creata nel 2012 con il nome di Facearound dalla società milanese Business Competence Srl. La Sezione Specializzata in materia di Impresa del Tribunale di Milano con sentenza n. 9549 del primo agosto 2016 aveva statuito che l'applicazione Nearby di Facebook utilizzerebbe la stessa banca dati elettronica dell’applicazione Faround. Faround seleziona i dati presenti sui profili Facebook degli utenti registrati organizzandoli e visualizzandoli poi su una mappa interattiva, dove vengono indicati gli esercizi commerciali più vicini alla posizione dell’utilizzatore, con anche recensioni e informazioni su sconti ed offerte. Per quanto tali dati non siano di proprietà di Faround che, anzi, li ha ottenuti accedendo a Facebook in veste di sviluppatore indipendente, la modalità della loro organizzazione detiene un certo grado di originalità che permette di tutelarli come banca dati coperta da diritto d'autore. Infatti, “i precedenti programmi elaborati da Facebook (Facebook Places) e da terzi (Foursquare e Yelp) non avevano le stesse funzionalità di Faround: il primo era una sorta di cerca-persona che consentiva solo di rilevare la presenza di amici nelle vicinanze e non, piuttosto, una geolocalizzazione di esercizi commerciali vicini all'utente, mentre gli altri erano studiati sulla base di algoritmi logici che lavoravano sui dati inseriti dai soggetti iscritti ai rispettivi social network, e non di Facebook, ben più diffuso". Proprio per questo motivo, la Business Competence Srl aveva accusato Facebook di avere rubato il concept e il format dell’applicazione, lanciando la sua Nearby, identica nel contenuto. Inoltre, essendo stata sviluppata in breve tempo, Nearby attirò anche i principali inserzionisti professionali, perpetrando una condotta sleale nella forma dello storno di clientela in riferimento al business pubblicitario. Il Tribunale di Milano, dopo aver constatato l’effettiva uguaglianza delle funzionalità delle due applicazioni e averle definite “sovrapponibili”, con la suddetta sentenza ha condannato la società di Zuckerberg alla pubblicità della decisione attraverso la sua pubblicazione su il "Corriere della Sera" e "Il Sole 24 Ore" nonché, per almeno quindici giorni, sulla pagina iniziale di facebook.com. Ha, inoltre, proibito ogni ulteriore utilizzo in Italia dell'applicazione Nearby disponendo una penale pari a 45mila euro per ogni giorno di violazione di tali disposizioni. Non sono, invece, ancora stati liquidati i danni dovuti alla parte offesa. Facebook ha impugnato la decisione davanti alla Corte d'Appello di Milano, la quale, nonostante debba ancora pronunciarsi sul ricorso, ha rigettato l'istanza di sospensione della misura provvisoria decisa in primo grado.

Una Mostra può essere tutelata come opera dell'ingegno?

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha statuito che un’esposizione può essere considerata un’opera dell’ingegno e come tale può essere tutelata dal diritto d’autore. Ai curatori di una mostra, dunque, possono essere riconosciuti diritti morali e patrimoniali. La realizzazione di una mostra può costituire espressione di un’idea creativa: da una parte si tutela il concept, cioè l’originalità del tema, dall’altra il project, cioè l’operazione di carattere creativo che precede l’allestimento vero e proprio. In questo senso, le esposizioni sono il frutto di un complesso e costoso processo di pianificazione e organizzazione, che merita di essere tutelato.

Il caso sottoposto alla Corte, riguardava un servizio televisivo messo in onda da RAI SAT, il quale, riproponendo una mostra, non ne rispettava i contenuti, violando così i diritti di sfruttamento economico riconosciuti dalla legge agli autori dell’opera. Fu dunque accertata la creatività della mostra, elemento necessario per la configurazione di un diritto d’autore. In altri casi, infatti, i giudici italiani avevano rigettato le richieste di accertamento e tutela di un diritto d’autore poiché non era stato provato in che modo originale fossero stati organizzati ed esposti gli oggetti di cui la mostra si componeva. In alcuni casi, inoltre, i giudici si sono spinti oltre e hanno allargato la tutela ad interi musei. È quello che è successo a Parigi, quando nel 2006 i giudici hanno riconosciuto la qualità di “opera d’ingegno” al museo del cinema Henri Langlois.

Sebbene la giurisprudenza, nazionale e non, sembri essere d’accordo nel concedere una tutela a mostre ed esposizioni, più difficile appare ricondurre questa fattispecie ad un istituto giuridico previsto dal legislatore. Nel nostro ordinamento, la tutela del diritto d’autore è garantita dalle previsioni della legge n. 633 del 1941, il quale comprende tutte le opere appartenenti “alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro, alla cinematografia,…,nonché le banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”. Con uno sforzo interpretativo, la mostra potrebbe essere considerata una banca dati, intesa quale “raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti..” (articolo 2, comma 9 l.633/41). O ancora, si potrebbe far rientrare l’esposizione artistica nella previsione dell’articolo 4 della legge 633 del 1941, il quale riconosce quali opere dell’ingegno anche le opere derivate, cioè “le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria o artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale”.

In entrambi i casi, condizione essenziale per il riconoscimento del diritto d’autore anche a mostre ed esposizioni è la realizzazione di un’opera intellettuale originale e creativa.

L'immagine di Marylin Monroe come marchio registrato.

Lo scorso 9 novembre 2016, la Marilyn Monroe Estate ha citato in giudizio un’azienda di abbigliamento newyorkese per essersi illegittimamente servita del marchio “Marilyn Monroe”, di cui la prima è titolare, attraverso l’utilizzo dell’immagine della celebre attrice.

La Marilyn Monroe Estate ha registrato presso il PTO (The United States Patent & Trademark Office) l’esclusiva proprietà dell’immagine, del nome, dell’identità e delle rappresentazioni di Marilyn, nonché il diritto di concedere la licenza di questi diritti a terze parti. 
The Estate of Marilyn Monroe è, dunque, detentrice e licenziataria del marchio Marilyn Monroe, che continuativamente e da oltre trent’anni utilizza sui mercati. Questa circostanza rende il marchio incontestabile, conferendogli una maggiore garanzia di tutela. 

Per questi motivi, la Monroe Estate ha chiesto che venissero accertate le violazioni previste dal Lanham Act, 15 U.S.C. 1051 ss, dallo Statuto di New York e dalle altre leggi applicabili di Common Law, e che venisse risarcito il danno cagionato, in termini di sfruttamento e diluizione del marchio, nonché di concorrenza sleale.

Poco importa, dunque, che il nome di Marilyn non venga effettivamente utilizzato in commercio dalla società convenuta: l’immagine della più famosa diva di tutti i tempi, quando usata come segno distintivo o marchio, rientra tra i “Monroe Rights” di proprietà dell’attore.
Più in particolare, come si evince anche da una precedente pronuncia giurisprudenziale*, è necessario distinguere la violazione dei diritti di sfruttamento del marchio dai diritti di sfruttamento dell’immagine. Solo la prima fattispecie, infatti, per essere integrata richiede che il consumatore sia indotto a credere che l’utilizzo del marchio sia stato autorizzato dal titolare. 
E proprio su questo punto, la Monroe Estate precisa che una confusione tra i consumatori e i rivenditori c’è stata: in molti avrebbero infatti contatto la società credendo che i prodotti della convenuta fossero stati approvati, autorizzati o sponsorizzati dalla società proprietaria del marchio.

Nel caso concreto, dunque, mentre potrebbe essere difficilissimo, o addirittura impossibile, provare una violazione del marchio visto che il marchio non è stato usato, l’articolo 1125 (a) 15 U.S.C dà ampio potere all’attore per intentare una richiesta legittima. 
Infatti, la legge federale americana sul marchio è rivolta alla tutela del consumatore. Se si è in presenza di una effettiva confusione all’interno del pubblico dei consumatori ci dovrebbe essere anche un rischio di confusione, che è la fattispecie riconducibile alle previsioni dell’articolo 1125(a) U.S.C. 
L’esistenza di effettiva confusione contestuale alla presenza di un marchio registrato dovrebbe assicurare l’applicazione dell’articolo sopra citato, garantendo alla Monroe Estate di vedere accolta la propria domanda.

*A.V.E.L.A., Inc v. The Estate of Mailyn Monroe

Il caso Elena Ferrante tra diritto all'anonimato e Privacy.

“Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona”. 

Così scrive nell'opera autobiografica intitolata La Frantumaglia, la celebre e misteriosa Elena Ferrante di cui oggi – pare - sia stata svelata l’identità. 

L’autrice dei libri divenuti best seller è, secondo la recente inchiesta del Sole 24Ore, Anita Raja, traduttrice nata a Napoli e residente a Roma, la cui madre era un’ebrea polacca sfuggita all’Olocausto. Il giallo sulla verità di Elena Ferrante sarebbe dunque stato risolto, realizzando così il (legittimo?) desiderio di milioni di lettori che da anni vogliono conoscere il nome e la persona che si cela dietro il famoso pseudonimo.

Ci si domanda in primo luogo se l’inchiesta abbia  violato il diritto allo pseudonimo. Questo infatti oltre ad essere, al pari del nome, può essere utilizzato come strumento per occultare la propria vera identità, e quindi come espressione del diritto alla riservatezza. 

Secondo il dettato del codice civile, lo pseudonimo è un nome diverso da quello attribuito per legge; può però essere tutelato alla pari del diritto al nome purché abbia acquistato l'importanza del nome stesso, od assolva alla stessa funzione di identificazione sociale Qualora vi sia un tale presupposto (si pensi agli pseudonimi degli scrittori, o degli attori che ricorrano a nomi d'arte pressoché più noti del nome proprio) il soggetto che lo usi potrà far valere l'azione inibitoria contro l'uso indebito, chiedendo al giudice la cessazione dell'utilizzo illegittimo dello pseudonimo, sempre salvo il risarcimento dei danni.

Ma questo non sembra essere il caso. Infatti l’inchiesta giornalistica de Il Sole 24 Ore, più che mettere in atto una appropriazione dello pseudonimo della famosa scrittrice, sembra aver violato il diritto della stessa all’anonimato. 

Nell'ordinamento giuridico Italiano non esiste, tuttavia, un diritto generale di anonimato.  

Potrebbe mai Elena Ferrante, la quale ha sempre detto di non voler far conoscere la sua vera identità invocare una più generica violazione della Privacy?; diritto che, come è noto, viene sempre più spesso negato ai personaggi pubblici.

Prima della  entrata in vigore della Legge sulla privacy, la fonte del c.d. right to be left alone era costituita da una sentenza della Corte di Cassazione del 1975, che identificava tale diritto nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l'onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificati da interessi pubblici preminenti. 


Col tempo la Giurisprudenza aveva precisato che  chi sceglieva la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presumeva rinunciare a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlato alla sua dimensione pubblica.

La linea di demarcazione tra il diritto alla riservatezza e il diritto all'informazione di terzi sembrava quindi essere la popolarità del soggetto. Tuttavia, anche soggetti molto popolari conservano tale diritto, limitatamente a fatti che non hanno niente a che vedere con i motivi della propria popolarità.

Il rapporto fra diritto di cronaca e privacy è molto complesso ed è regolato da una serie di norme, stratificatesi nel tempo, che hanno cercato di stabilire un corretto compromesso fra i diversi interessi messi in campo.

Ci sono norme volte a proteggere la privacy dei cittadini alle quali i giornalisti devono attenersi durante l'adempimento del proprio lavoro.

La legge n.675 del 1996 sulla protezione dei dati personali, confluita poi nel “Codice in materia di protezione dei dati personali” (d.lgs. n.196 del 30 giugno 2003), ha dato vita ad un articolato sistema di bilanciamento dei diritti contrapposti attraverso la previsione di una pluralità di mezzi giuridici: criteri per il bilanciamento, procedure per realizzarlo, strumenti giurisdizionali.

Il quadro normativo attuale prevede un meccanismo di garanzia diversamente articolato a seconda della natura dei dati.

Ricordiamo, brevemente, che l’utilizzazione dei dati personali è possibile qualora vengano rispettate tre condizioni:

-    l’utilizzazione deve avvenire nell’esercizio di un’attività riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero;
-    i dati personali debbono essere relativi a fatti di interesse pubblico;
-    la diffusione deve avvenire “entro limiti essenziali”, cioè non deve eccedere l’intento informativo, inserendo informazioni non strettamente necessarie.

L’inchiesta sulla vera identità di Elena Ferrante non è ancora stata né confermata né smentita con chiarezza. Se sia davvero Anita Raja è quindi ancora un mistero.

The Song does not Remain the Same.

I Led Zeppelin hanno vinto la causa per plagio di "Stairway To Hevean", forse la loro canzone più celebre. Una giuria del Tribunale Federale di Los Angeles ha stabilito che gli eredi di Randy California  non  sono stati in grado di provare il plagio della canzone "Taurus" composta nel 1968 dagli Spirit. 
L'azione legale era iniziata nel 2014 e secondo gli attori, i Led Zeppelin erano a conoscenza della canzone "Taurus" che avrebbero successivamente copiato e pubblicato nel loro celebre album IV. Il brano Taurus è invece precedentemente apparso sull'album di debutto omonimo del 1968 degli Spirit.
La giuria della corte federale, pur confermando che il fatto che Jimmy Page e Robert Plant erano a conoscenza del riff del brano "Taurus" già nel 1967, ha convenuto sull'insussistenza di un plagio totale o parziale da parte della rock band britannica.