Diritto Immobiliare

L’odissea del diritto d’uso esclusivo

Il diritto d’uso esclusivo è un diritto che nasce negli anni ’60 dalla prassi notarile, come soluzione ad una esigenza del mercato non ancora coperta dal legislatore.

Sono gli anni in cui, nelle grandi città come Milano, l’aumento della popolazione in aree urbane porta un necessario frazionamento degli immobili e la realizzazione di spazi comuni, quali parcheggi, giardini e cortili condominiali. È così che per la prima volta si concede in diritto d’uso esclusivo una parte dell’edificio che è di proprietà dell’intero condominio e di chi ci abita.

Sorgono le prime questioni: Che cos’è? Una servitù prediale? Un diritto reale atipico? Un diritto d’uso? È un diritto perfettamente trasferibile? E’ perpetuo o no?

Una risposta a tutte queste domande è stata data dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 28972 del 2020, come reazione alle grandi operazioni immobiliari che dal 2000 in poi hanno causato incertezze sempre maggiori nel mondo del diritto. La vicenda narrata in Sentenza riguarda la comproprietà di un edificio composto da tre unità immobiliari ad uso commerciale al piano terra, tre unità ad uso residenziale al primo piano, un cortile retrostante e un’area antistante i locali commerciali. Con la divisione dell’edificio è stato assegnato ai negozi posti al piano terra l’uso esclusivo delle porzioni di corte antistante. In seguito allo scioglimento della comunione e alla vendita di una parte dell’immobile, i successivi aventi causa citano in giudizio il titolare dei negozi, che si è appropriato del cortile antistante ed ha realizzato sul cortile una costruzione.

Facciamo un passo indietro: era già noto prima della Sentenza, che l’uso esclusivo non incidesse sulla titolarità delle parti comuni, che per definizione sono di proprietà del condominio, bensì sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini. Alcune parti comuni, in altri termini, si configurano comuni più ad alcuni che ad altri, a seconda del loro collocamento geografico.

È proprio in questa circostanza che la Cassazione con un completo revirement si pronuncia sulla natura del diritto d’uso esclusivo, chiarendo che non si tratta di un diritto reale atipico come precedentemente si pensava, ma piuttosto di un rapporto obbligatorio, valido unicamente tra gli originari contraenti – non trasferibile e pertanto privo di efficacia reale. L’effetto che si genera è la nullità del trasferimento del bene tra i successivi proprietari.

Le argomentazioni della Sentenza partono dalla concezione di uso della cosa comune in ambito condominiale, specificando che “l’uso è uno dei modi attraverso i quali può esercitarsi il diritto, e forma parte intrinseca e caratterizzante, nucleo essenziale del suo contenuto”.

La Corte in altri termini afferma che la clausola attraverso la quale si concede ad una singola unità immobiliare l’uso esclusivo di un’area, si è diffusa attraverso la prassi negoziale, in particolare notarile, teorizzata al fine di risolvere i problemi catastali nel corso di liti in cui si controverteva della titolarità in capo ad un condominio della porzione di una parte comune, ai sensi dell’art. 1117 cc.

Anzitutto, la Cassazione passa in rassegna tutto ciò che l’uso esclusivo non è, demolendo completamente l’impostazione precedentemente data dal Notariato.

L’uso esclusivo, infatti, quale connotazione del diritto di proprietà ex art. 832 cc, non è riconducibile al diritto reale d’uso ex art. 1021 cc. di cui l’uso esclusivo di parte comune nel condominio non mutua i limiti di durata, trasferibilità e modalità di estinzione.

Il diritto d’uso esclusivo non è nemmeno inquadrabile tra le servitù prediali, poiché la conformazione dalla servitù che può essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, poiché ciò determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso nel suo nucleo fondamentale.

Il diritto d’uso esclusivo non è configurabile neppure come prodotto dell’autonomia negoziale: ciò a causa del principio di tipicità e del “numerus clausus” dei diritti reali, in forza del quale solo la Legge può istituire figure di diritti reali e i privati non possono incidere sul loro contenuto.

In definitiva, dopo una lunga analisi, la Suprema Corte afferma il principio di diritto che segue: «La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. "diritto reale di uso esclusivo" su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell'edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall'art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi».

L’articolo 1102 cc – infatti - ribadisce il principio generale per cui i condomini non possono impedire agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto: vieta la totale compromissione del godimento spettante ai condomini sulla cosa comune, tuttavia non esclude la possibilità di un uso più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri.

La Suprema Corte afferma che per comprendere la sorte del titolo negoziale che prevede il diritto di uso esclusivo è necessario in primis attenersi al significato letterale del testo (che depone senz’altro contro l’interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà) ed indagare altresì la volontà delle parti, facendo espresso riferimento all’art. 1362 c.c. È necessario quindi analizzare la volontà dell’originario proprietario, per indagare se la volontà al momento della costituzione del condominio fosse limitata all’attribuzione dell'uso esclusivo, riservando la proprietà all'alienante, oppure fosse diretta al trasferimento della proprietà di una pertinenza.

In altri termini il nostro diritto altro non è che un patto, un negozio od un accordo attraverso il quale le Parti mirano alla creazione del diritto di uso esclusivo, ovvero la concessione di un utilizzo perpetuo di natura obbligatoria, avente valore solo inter partes e non erga omnes.

Le locazioni commerciali durante l’emergenza sanitaria Covid - 19: buona fede, disponibilità negoziale e collaborazione fra le parti.

La gravissima emergenza sanitaria in atto comincia purtroppo ad avere gravi conseguenze sulla stabilità dei rapporti contrattuali e, in particolare in materia di locazioni commerciali, la difficoltà seppur temporanea di regolare pagamento del canone ha dato avvio ad un possibile conflitto tra locatori di immobili ed aziende conduttrici.

Sul fronte di entrambe le parti si comincia infatti ad avvertire l’esigenza di chiarezza sui rispettivi diritti e doveri nel caso, ad esempio, di richieste di modifica dei termini e delle condizioni di pagamento o di sospensione del pagamento dei canoni.

Il tema in realtà, al di là dell’inquadramento giuridico delle eventuali contestazioni che una parte può sollevare nei confronti dell’altra, secondo noi verte principalmente sull’applicazione della buona fede intesa come principio generale che governa i rapporti negoziali e come strumento attraverso il quale ripristinare autonomamente l’equilibrio contrattuale venuto meno attraverso un dialogo costruttivo tra le parti.

Disponibilità negoziale e collaborazione reciproca fra creditore e debitore nell’attuale fase storica possono infatti rivelarsi rimedi molto più incisivi - e certamente costruttivi, oltre che economici - rispetto alla formulazione di contestazioni, diffide, lettere c.d. di messa in mora ovvero rispetto all’avvio di un autonomo giudizio in sede civile. Si pensi ad esempio all’artt. 1256 codice civile che, nel disciplinare l’impossibilità della prestazione, prevede che se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Oppure, dal lato del locatore, si pensi all’esercizio di una clausola risolutiva espressa che, ove preventivamente concordata, permette allo stesso di risolvere un contratto in caso di mancato tempestivo pagamento del canone da parte del conduttore.

Al di là di oziose disquisizioni attorno all’applicazione o meno di alcuni principi civilistici in subiecta materia (i.e. factum principis/forza maggiore/eccessiva onerosità sopravvenuta etc.) e fermo restando che il Decreto “Cura Italia” ha previsto la facoltà in capo ai conduttori esercenti attività rimaste chiuse di recuperare parzialmente l’importo relativo al canone di marzo mediante il meccanismo del credito d’imposta, in concreto il corollario delle considerazioni sopra svolte consiste nell’opportunità che le parti, invece di litigare eventualmente anche di fronte al giudice con ulteriori oneri e perdite di tempo, concordino congiuntamente una sospensione convenzionale del pagamento del canone per un certo (e congruo) periodo di tempo con l’impegno, ad esempio, a carico del conduttore di rientrare dei canoni scaduti ed insoluti entro l’anno successivo tramite un piano di rientro condiviso. Un’ulteriore opzione potrebbe essere costituita da una riduzione convenzionale del canone per un periodo di tempo determinato - in questo caso coincidente con la durata della paralisi dovuta all’epidemia in atto - che permetta però al conduttore il regolare ed effettivo pagamento dei canoni senza interruzioni.

Le parti, facendosi reciproche concessioni, in un’ottica di buon senso ed in buona fede reciproca, ristabilirebbero amichevolmente e senza ulteriori spese un equilibrato assetto dei rispettivi interessi mantenendo in vigore il contratto. Le soluzioni prospettate - che possono essere molteplici e rimesse alla “capacità creativa” delle parti - si fondano evidentemente sulla disponibilità e concreta capacità delle stesse a collaborare e ad individuare una soluzione in linea alle rispettive e reciproche esigenze.

A prescindere e ferme restando le lungaggini insite in ogni giudizio, lo scenario attuale, con la sospensione dell’attività giurisdizionale recentemente prorogata sino al 15 aprile 2020, non lascia peraltro intravedere la possibilità di ottenere una tutela tempestiva delle proprie ragioni in caso di vertenze che non siano state previamente conciliate tra le parti.