advertising

Ambush marketing e tutela degli investimenti promozionali tra passato e futuro

In vista delle prossime olimpiadi invernali, che vedranno i territori montani di Lombardia e Veneto protagonisti della scena sportiva mondiale, un importante strumento normativo tutelerà i marchi d’impresa registrati, anche dalla pubblicità parassitaria e ingannevole, realizzata nell’ambito non solo delle olimpiadi, ma di tutti gli eventi sportivi o fieristici di rilevanza nazionale o internazionale che si svolgeranno sul territorio italiano.

La nuova disciplina che contrasta la pubblicizzazione non autorizzata, è contenuta nel decreto-legge sulle 'Disposizioni urgenti per l'organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 - 2025, nonché in materia di divieto di pubblicizzazione parassitaria', pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.66 del 13 marzo 2020, convertito in legge 8 maggio 2020, n.31 e pubblicato nella G.U. n.121 del 12 maggio 2020 e rappresenta il primo intervento organico del legislatore italiano in questa materia, essendo stato preceduto unicamente da provvedimenti contingenti a singoli eventi sportivi.

La pubblicità non autorizzata, associata ad eventi di risonanza nazionale o internazionale “è definita nella prassi definita come “ambush marketing” e individua la condotta non autorizzata di chi associ il proprio marchio ad un evento internazionale, al solo fine sfruttarne la risonanza mediatica e senza sopportare i costi di sponsorizzazione.

L’ambush marketing da luogo non solo ad un inganno per il pubblico - che assocerà il marchio illecitamente connesso all’evento all’evento stesso - ma anche ad un agganciamento parassitario con gli effettivi sponsor della manifestazione e può costituire una violazione delle norme poste a presidio della concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) e della leale comunicazione pubblicitaria (decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e Codice dell’Autodisciplian Pubblicitaria).

Nello specifico, la norma vieta le seguenti attività:

  1. la creazione di un collegamento indiretto tra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi, idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali;
  2. la falsa dichiarazione nella propria pubblicità di essere sponsor ufficiale di uno degli eventi;
  3. la promozione del proprio marchio o altro segno distintivo, tramite qualunque azione, non autorizzata dall'organizzatore, che sia idonea ad attirare l'attenzione del pubblico, posta in essere in occasione di uno degli eventi, e idonea a generare nel pubblico l'erronea impressione che l'autore della condotta sia sponsor dell'evento sportivo o fieristico medesimo;
  4. la vendita e la pubblicizzazione di prodotti o di servizi abusivamente contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di un evento sportivo o fieristico, ovvero con altri segni distintivi idonei a indurre in errore circa il logo medesimo e a ingenerare l'erronea percezione di un qualsivoglia collegamento con l'evento ovvero con il suo organizzatore.

A seconda delle modalità con cui viene posto in essere, l’ambush marketing viene solitamente classificato in:  “insurgent ambush”, ovvero l’organizzazione di iniziative a sorpresa a ridosso dell’evento;  “predatory ambush”, che utilizza segni distintivi in connessione con o che richiamano anche indirettamente l’evento  “saturation ambush”, che occupa tutti gli spazi pubblicati rimasti rispetto a quelli utilizzati dagli sponsor ufficiali.

Sotto un profilo temporale, i divieti operano dal novantesimo giorno antecedente alla data ufficiale di inizio dell’evento sportivo o fieristico, fino al novantesimo giorno successivo alla sua conclusione, mentre, da un punto di vista dell’operatività, sono esclusi dalla norma i contratti di sponsorizzazione degli atleti, delle squadre e dei partecipanti agli eventi.

L’autorità preposta all’accertamento e alla repressione delle condotte di ambush marketing è l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che può applicare sanzioni pecuniarie amministrative, che variano a seconda dei casi da 100 mila euro a 2,5 milioni di euro.

Recentemente, proprio l’AGCM si è occupata di una caso di ambush marketing relativo alla coppa UEFA 2020 , arrivando a multare l’e-commerce Zalando com 100.000 euro di multa nei confronti di Zalando SE ("Zalando"), per violazione dell'articolo 10, comma 1 e 2, lettera a), del decreto legge n. 16 dell'11 marzo 2020.

La concotta censurata consisteva nell’esposizione, nella stessa piazza di Roma dove era allestita l'area ufficiale di Euro 2020, di un manifesto che domandava "Chi sarà il vincitore?" accompagnato dai segni distintivi di Zalando apposti su di una maglia da calcio affinacato dalle bandiere delle nazionali di Euro 2020.

Questa pubblicità è stata ritenuta illecita dall’AGCM in quanto il manifesto di Zalando era idoneo a far credere ai consumatori che Zalando fosse un partner accreditato dell’evento in quanto creava un’indebita connessione tra Zalando stessa e l’evento del quale non era sponsor ufficiale.

La decisione dell’Agcm è risultata attenta a valorizzare tutte le circostanze del caso e, pertanto, in vista dei prossimi giochi invernali, è di primaria importanza che le imprese valutino attentamente le proprie campagne di marketing prima di incorrere accidentalmente in profili di violazione delle norme pubblicitarie.

Pubblicità occulta e Social Media

Il mercato pubblicitario sta cambiando e sempre più comuni sono diventate le pubblicità indirette o, peggio, occulte in internet e sui social network più popolari.

La pubblicità indiretta è un tipo di pubblicità che compare in maniera chiara ed esplicita in spazi non tipicamente pubblicitari, senza però essere segnalata come tale. È invece pubblicità occulta la pubblicità che avviene in modo non palese. Questa pratica è vietata dalla legge italiana ma limitatamente alla televisione. E, sebbene film e telefilm siano un terreno fertile per il proliferare di questo tipo di sponsorizzazione, nuove sfide si sono aperte soprattutto sui social network. Infatti, dato che questi spazi rappresentano una nuova opportunità di manifestazione del proprio pensiero e dei propri interessi e gusti e un nuovo mezzo per apprendere e condividere informazioni e contenuti, anche le aziende hanno cominciato ad utilizzarli, in maniera esplicita o poco manifesta.

Da una parte troviamo veri e propri spot pubblicitari, come le sponsorizzazioni dichiarate, anche se non del tutto controllate: Facebook e Instagram, ad esempio, verificano che le inserzioni non contengano contenuti illeciti o proibiti dal regolamento interno, ma non controllano la veridicità delle informazioni comunicate, né la loro congruità a delle norme, visto che non esiste alcun codice di disciplina da rispettare.

Dall’altra c’è l’advertising che non si dichiara ma si fa, il cosiddetto product placement all’interno dei profili più cliccati.

A questo proposito, lo scorso gennaio la Competition and Markets Authority, agenzia governativa inglese che tutela la concorrenza sui mercati, si è pronunciata contro la pubblicità occulta, ovvero quella forma di pubblicità che non è indistinguibile da contenuti comuni nelle foto o nei video pubblicati. Chi si era spinta molto oltre era stata, tempo prima, la Federal Trade Commission americana che, per la prima volta, ha affrontato la questione, chiedendo alle celebrità della moda, dello sport e in generale agli influencer di rendere riconoscibili le loro redditizie collaborazioni commerciali attraverso hashtag o commenti.

Una normativa di riferimento però non c’è ancora e nemmeno le condizioni di utilizzo di siti come Instagram prevedono qualche tipo di regola. Ci si domanda quindi se si tratti di attività conformi alle norme del nostro ordinamento, in relazione soprattutto alla tutela il consumatore che, oltre a non dover essere soggetto a spot non veritieri e ingannevoli, ha diritto di poter distinguere i contenuti a scopo pubblicitario da quelli di puramente “di tenedenza”.

Recentemente, l’Unione Nazionale Consumatori ha interrogato l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per chiedere che si verificasse la legittimità dell’attività pubblicitaria occulta sui social network. La base giuridica di tale contestazione è l’articolo. 22 del Codice del Consumo secondo il quale l’intento commerciale dev’essere esplicitamente indicato qualora non sia reso evidente dal contesto o, comunque, se è idoneo a indurre in errore il consumatore.

L’AGCM dovrebbe dunque fare chiarezza e fornire informazioni adeguate sia sul rapporto interno tra produttore e influencer, sia sulla necessità di indicare in maniera esplicita e senza alcuna possibilità di fraintendimento il fine pubblicitario dell’attività.

Nel frattempo, Instagram ha lanciato un nuovo tag,Paid Partnership with”, in modo che gli utenti possano inserirlo sia nelle storie che nei post pubblicati per denunciare la presenza di una pubblciità. In alternativa, molte blogger, tra cui la più celebre è Chiara Ferragni, hanno iniziato ad utilizzare alcuni “claim-hashtag”, come #ad, #advertisement o #pubblicità, per evidenziare lo scopo commerciale della loro foto, in modo da contribuire, seppur in modo non sufficiente, ad una tutela del consumatore.