La direttiva 825/2024 sul Greenwashing

DIRETTIVA EU GREENWASHING

FENOMENO GREENWASHING

Il fenomeno sopra citato, ossia l’ambientalismo di facciata, è una forma di comunicazione che molte imprese, organizzazioni o istituzioni politiche rischiano di mettere in pratica fornendo un’immagine ingannevole, in termini di positività sotto il profilo dell’impatto ambientale. Di conseguenza, l’effetto di tale condotta è proprio quello di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi sull’ambiente generati delle attività o dei prodotti delle imprese stesse. Tale sviluppo, però, mette a rischio l’accuratezza delle dichiarazioni ecologiche delle imprese, sia rilasciando, quest’ultime, indicazioni non veritiere o capaci di ingannare consumatori, investitori e altri partecipanti al mercato (ad esempio, presentando un prodotto più sostenibile di quanto lo sia realmente) sia omettendo informazioni rilevanti. Tale fenomeno è sintomo della competizione fra gli enti, dell’assenza di regole e controlli, delle carenze nelle strutture, nell’etica o nel governo societario dell’ente, etc.

DIRETTIVA 825/2024

La direttiva in oggetto ha come obiettivo il miglioramento dell’etichettatura e della durabilità dei prodotti, potendo così porre fine alle dichiarazioni ingannevoli rilasciate. Tale approccio vuole aiutare, non solo i consumatori nelle loro scelte commerciali, ma anche le aziende, in modo da riuscire ad offrire una qualità migliore, soprattutto in termini di sostenibilità. È importante ricordare la presenza del seguente testo all’interno del primo pacchetto sull’economia circolare, insieme ad altri documenti già presenti.

Inoltre, la disposizione in esame pone una serie di divieti e di obblighi generici di trasparenza in materia di claims ambientali e di sostenibilità. Infatti, porterà all’inserimento di nuove regole specifiche nel Codice del Consumo, cercando di rendere quindi più semplice l’individuazione e la contestazione delle pratiche ingannevoli da parte delle autorità, e ponendo un freno al fenomeno del Greenwashing.

Il provvedimento dell'AGCM più noto su questo argomento è sicuramente quello del 20 dicembre 2019 n. 28060 per la realizzazione di una pratica commerciale scorretta ai danni dei consumatori per una campagna pubblicitaria sul carburante.

Ad oggi, la direttiva è entrata in vigore e si riconosce all’Italia fino a Marzo 2026 come data ultima di implementazione.

OGGETTO DELLA DIRETTIVA

Svolgendo una analisi più specifica, l’Unione Europea intenderà rendere l’etichettatura dei prodotti più chiara e affidabile, vietando l’uso di indicazioni ambientali ingannevoli e generiche (es. rispettoso dell’ambiente, degli animali oppure termini come verde, naturale, biodegradabile, eco), almeno che non siano supportate da prove

Le principali novità che emergono possono essere così riassunte:

In tema di pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali, così come definite dall’allegato I della Direttiva 2005/29/CE, la nuova Direttiva 825/2024 inserisce ulteriori strategie di marketing problematiche all’elenco già esistente. Ad esempio, è considerata una pratica sleale quella concernente la formulazione di asserzioni ambientali che contengono informazioni “non veritiere” o generiche riguardo alla sussistenza di caratteristiche attribuite a prodotti o, più semplicemente, è altresì sleale rilasciare dichiarazioni circa le proprietà facenti capo all’intero prodotto, quando queste, in realtà, sono vere solo su una parte di esso.

In particolare, tra le nuove condotte inserite in questa black list merita fare menzione al comportamento, considerato quindi illecito, di “esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche”.

Con marchio di sostenibilità si intende qualsiasi marchio di fiducia, marchio di qualità o equivalente, pubblico o privato, avente carattere volontario, che mira a distinguere e promuovere un prodotto, un processo o un’impresa con riferimento alle sue caratteristiche ambientali o sociali oppure a entrambe, esclusi i marchi obbligatori richiesti a norma del diritto dell’Unione o nazionale. Alla luce della direttiva Greenwashing, saranno autorizzati solo marchi di sostenibilità basati o su sistemi di certificazione approvati da autorità pubbliche o su standard con condizioni trasparenti, eque e non discriminatorie.

Inoltre, in tema di impatto zero e neutralità climatica, la Direttiva pone un divieto assoluto alle imprese di vantare un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra, tra cui anche la CO2, sulla base della compensazione. Questo non significa impedire alle imprese di pubblicizzare i loro investimenti in iniziative ambientali, compresi i progetti sui crediti di carbonio, purché le stesse forniscano tali informazioni in modo non ingannevole e conforme ai requisiti stabiliti dal diritto dell’EU.

Infine, la direttiva si sofferma su ulteriori punti. In primo luogo, l’attenzione dei consumatori sulla durata dei prodotti: in futuro, le informazioni sulla garanzia dovranno essere più visibili e si creerà un nuovo marchio armonizzato per dare maggiore risalto ai prodotti con un periodo di garanzia più esteso. In secondo luogo, le nuove norme vietano le indicazioni infondate sulla durata, le false dichiarazioni sulla riparabilità di un prodotto e l’invito a sostituire i beni di consumo prima del necessario.

UNA PARTICOLARE ATTENZIONE AL SETTORE TESSILE

La Commissione chiederà all’industria della moda di sostituire le sostanze pericolose nei prodotti tessili immessi sul mercato europeo e di adottare un riciclo responsabile ed innovativo da fibra a fibra. Alla luce di ciò, i produttori si dovranno assumere la responsabilità dei prodotti lungo la loro “value chain”, definendo con urgenza la normativa europea di riferimento dell’End of Waste e armonizzando le norme in materia di responsabilità estesa del produttore tessile e gli incentivi economici per rendere i prodotti più sostenibili.


LO STALLO DECISIONALE (DEADLOCK) NELLE SOCIETÀ

LO STALLO DECISIONALE (DEADLOCK) NELLE SOCIETÀ

Che cos’è uno stallo decisionale o deadlock?

  • Lo stallo decisionale si verifica quando gli organi della società non riescono ad assumere le decisioni per mancanza delle maggioranze necessarie. Questo può avvenire a causa del disaccordo fra i soci o gli amministratori ovvero della loro inerzia nell’attività sociale. I conflitti possono sorgere per vari motivi, ad esempio una discorde visione o interessi economici differenti. Un simile scenario è tanto più possibile ed evidente in presenza di soci paritetici (50%-50%). Le situazioni di stallo hanno come conseguenza ultima l’irrealizzabilità degli obiettivi dell’attività di impresa.

Quali sono le possibili soluzioni?

  • Il modo migliore per evitare situazioni di stallo è anticiparle tramite l’adozione di alcuni strumenti preventivi. Il primo tra i rimedi è l’introduzione di clausole antistallo (deadlock-clause) nello statuto o nei patti parasociali Questi ultimi hanno come fine la stabilizzazione degli assetti proprietari o la governance della società. Esistono clausole antistallo di varia natura, come ad esempio quelle che prevedono meccanismi di consultazione e conciliazione preventivi, fino al casting vote ovvero la possibilità di attribuire ad un socio in caso di stallo il voto decisivo, spesso, non agevolmente prevedibile, in quanto comporta la posizione subordinata di uno o più soci nei confronti di altri. Più complicato è prevedere che la decisione antistallo venga demandata a terzi esterni alla società. Talvolta la miglior soluzione è stata trovata nel concedere a uno o più soci un’opzione put, ovvero il diritto di vendere le proprie partecipazioni ad un prezzo determinato (o determinabile) ovvero un opzione call mediante la quale uno o più soci hanno il diritto di acquistare le partecipazioni altrui. Esiste poi la cosiddetta clausola della roulette russa con la previsione che al verificarsi di una situazione di stallo, un socio possa porre l’altro di fronte alla scelta di acquistare la quota del socio offerente, al prezzo da lui proposto, o cedergli la propria quota al medesimo prezzo. Altra possibile soluzione antistallo è legata alla disciplina statutaria del diritto di recesso, con la previsione di ulteriori ipotesi di recesso, oltre a quelle previste dalla legge, che tengano conto della possibile conflittualità tra i soci.

Un caso pratico di utilizzo di Russian roulette clause:

  • Proprio in questi giorni la stampa ha dato atto di una situazione di deadlock societaria che ha visto coinvolto un noto cantante italiano ed il suo socio nella gestione della società che pubblica un seguitissimo Podcast. In presenza di una Russian roulette clause, uno dei due soci paritetici ha proposto di rilevare le quote dell’altro socio, attivando così la clausola di Russian roulette. Il socio che ha ricevuto l’offerta, rifiutandosi di vendere le proprie quote, si è ritrovato nella possibilità di acquistare le quote dell’offerente che, a sua volta, si sarebbe rifiutato di cederle. La vicenda è sfociata in un procedimento cautelare. A dimostrazione del fatto che la clausola di Russian roulette è un meccanismo piuttosto complesso da gestire, tanto nella fase preventiva, quanto in alcuni casi, nella fase esecutiva.

Conclusioni:

  • Nel corso della vita della società è più frequente di quanto si pensi potersi trovarsi a fronteggiare situazioni di stallo. In questi casi l’attività potrebbe avere delle ripercussioni negative sia nei risultati che nei rapporti interni. Dunque, prima di iniziare un’attività in forma societaria, è bene investire tempo nella fase di progettazione e pianificazione del miglior assetto possibile.

Introduzione all’UE Data Act: Rivoluzione nel mercato dei dati non personali

Introduzione all’UE Data Act: Rivoluzione nel mercato dei dati non personali: Innovazione e business nel mercato IoT

Lo scorso 11 gennaio 2024, è entrato in vigore il tanto atteso ed annunciato Regolamento UE, noto come “Data Act” (Regolamento (UE) 2023/2854). La sua applicazione è prevista a partire dal 12 settembre 2025 per la maggior parte delle disposizioni e dal 12 settembre 2026 per le disposizioni specifiche legate alla progettazione di nuovi prodotti connessi e servizi correlati. Questo ampio lasso temporale è volto - come spesso accade per i Regolamenti UE con forti impatti sull’organizzazione aziendale (vd. ad esempio il GDPR) - a permettere alle imprese di adattare le proprie procedure e modelli di business alle novità e agli stringenti requisiti dettati dalla normativa.

Per dare un primo inquadramento generale, segnaliamo che il Data Act:

  • Si inserisce nella "Strategia Europea per i Dati" del 2020, che mira alla creazione di un mercato unico consentirà ai dati di circolare liberamente all'interno dell'UE e in tutti i settori a vantaggio delle imprese, dei ricercatori e delle pubbliche amministrazioni

  • segue la pubblicazione - e successiva efficacia dal settembre 2023 - del “Data Governance Act” che a sua volta mira a stabilire un quadro normativo per l'abilitazione, la condivisione e l'uso dei dati all'interno dell'Unione Europea, promuovendo l'accesso ai dati e il loro riutilizzo, nel rispetto delle regole di protezione dei dati e della privacy;

  • persegue l’obiettivo di rendere possibile, promuovere e regolamentare la condivisione e la commercializzazione dei dati non personali generati da dispositivi Internet of Things (IoT) tra imprese e con enti governativi.

Vista la natura e il contesto in cui si inserisce, il Data Act andrà applicato tenendo in debita considerazione tutte le normative UE alla stessa connesse, in materia di privacy (GDPR), di commercio elettronico e servizi digital (Digital Service e Market Acts) e di Intelligenza Artificiale (AI Act, di prossima pubblicazione).

La portata innovativa della normativa può essere già compresa con la lettura di alcune specifiche previsioni della normativa in esame:

  • Articolo 3: impone che i prodotti IoT siano progettati per garantire agli utenti finali l'accesso ai dati generati in modo semplice, sicuro e gratuito. Le imprese dovranno incorporare nelle loro soluzioni tecniche adeguati meccanismi di accesso ai dati, assicurando che questi siano forniti in formati standardizzati e facilmente utilizzabili. Le imprese devono quindi rivedere il design dei loro prodotti per assicurare conformità ai principi di accessibilità e trasparenza.
  • Articolo 4.3: impone ai fornitori di servizi correlati ai prodotti IoT di informare gli utenti sulla natura dei dati generati e sulle modalità di accesso e condivisione. Si richiede quindi un approccio comunicativo trasparente, dove le imprese dovranno elaborare e condividere documentazione chiara e comprensibile su come gli utenti possono recuperare e utilizzare i loro dati, stimolando così una maggiore fiducia e collaborazione con gli utenti finali.
  • Articolo 8.1: impone ai soggetti che, per contratto o per obbligo normativo, dovranno mettere i dati a disposizione di soggetti terzi, di farlo a condizioni eque, ragionevoli, non discriminatorie e in modo trasparente, promuovendo una competizione leale e prevenendo pratiche monopolistiche o restrittive nel mercato dei dati.
  • Articolo 9.1: precisa che il compenso concordato tra il titolare e il destinatario dei dati per la messa a disposizione dei dati nelle relazioni tra imprese dovrà essere non-discriminatorio e ragionevole e che potrà includere un margine. I soggetti convolti nelle transazioni basate sui dati devono quindi negoziare e stabilire accordi equi che riflettano il valore dei dati condivisi, garantendo una distribuzione equa dei benefici derivanti dalla loro commercializzazione.

Queste previsioni ci fanno comprendere che la normativa non solo stabilisce obblighi ma apre anche nuove vie per la monetizzazione dei dati e l'innovazione. La condivisione dei dati secondo principi di equità e trasparenza promuoverà un ecosistema digitale più collaborativo e competitivo, dove le aziende potranno sviluppare nuovi servizi o migliorare quelli esistenti grazie all'accesso a dati precedentemente inaccessibili. Lo sviluppo del business potrà anche essere incentivato dai c.d. "intermediari dei dati" (figura già prevista dal Data Governance Act) che svolgeranno un’attività economica volta alla creazione di rapporti commerciali basati sulla condivisione dei dati tra utenti e terzi.

In questo ambito, sono già disponibili alcuni studi sull’applicazione operativa del data Act come lo "Study for developing criteria for assessing ‘reasonable compensation’ in the case of statutory data access right" preparato per la Commissione Europea per comprendere meglio i presupposti sulla base dei quali sarà possibile stabilire l’equità del compenso derivante dalla compravendita dei dati. Attraverso l'analisi di casi studio e l'applicazione di modelli economici, propone un approccio per stabilire compensazioni che riflettano il vero valore dei dati condivisi, promuovendo un ambiente di mercato equilibrato che incentivi la collaborazione e l'innovazione.

Ulteriore aspetto da segnalare è che il Data Act stabilisce requisiti minimi per gli accordi tra clienti e fornitori di servizi di elaborazione dati, come i servizi cloud, facilitando il passaggio dei clienti ad altri fornitori e prevedendo l'eliminazione graduale delle tariffe di uscita dei dati e imponendo di adottare misure trasparenti riguardo alla giurisdizione e alle strategie per prevenire accessi governativi non autorizzati ai dati non personali, evitando conflitti con le leggi dell'UE o degli Stati membri.

In conclusione

Il Data Act rappresenta un passo significativo verso la realizzazione della visione europea di un mercato unico digitale aperto, sicuro e competitivo. Facilitando la condivisione e la commercializzazione dei dati non personali, introduce nuove regole del gioco per produttori, consumatori e intermediari dei dati, stimolando innovazione e creando nuove opportunità di business. Le aziende sono chiamate ad adattarsi a questi cambiamenti, preparandosi a navigare in un paesaggio regolatorio evoluto che pone al centro la valorizzazione dei dati in modo etico e sostenibile. Con l'avvicinarsi delle date di applicazione, è fondamentale che tutti gli attori coinvolti si impegnino attivamente per comprenderne le implicazioni e sfruttare appieno le potenzialità offerte dal Data Act.

Per approfondimenti, Avv. David Ottolenghi, Senior Counsel, Clovers

AI Act: nuovi scenari nella regolamentazione dell’intelligenza artificiale.

L'AI ACT, il regolamento europeo sull'Intelligenza Artificiale, è stato approvato dal Parlamento europeo il 14 giugno e sarà sottoposto all’esame dei Paesi UE in Consiglio, con l’obiettivo di diventare legge entro la fine del 2023. L’AI Act adotta un approccio basato sul rischio e prevede sanzioni fino a Euro 30.000.000 o fino al 6 % del fatturato mondiale totale annuo dell'esercizio precedente.

La proposta di regolamento dell'UE sull'intelligenza artificiale mira a creare un quadro giuridico per l'IA affidabile, basato sui valori e sui diritti fondamentali dell'UE, con l'obiettivo di garantire un utilizzo sicuro dell'IA, prevenendo rischi e conseguenze negative per le persone e la società.

Il testo fissa regole armonizzate per lo sviluppo, l'immissione sul mercato e l'utilizzo di sistemi di IA nell'UE, attraverso un approccio basato sul rischio, che prevede diverse obbligazioni di conformità a seconda del livello di rischio (basso, medio o elevato) che i software e le applicazioni intelligenti possono comportare per i diritti fondamentali delle persone: maggiore è il rischio, maggiori sono i requisiti di conformità e le responsabilità per i fornitori delle applicazioni intelligenti.

In ragione di questo approccio basato sul rischio, l’AI Act distingue tra:

-          "Pratiche di Intelligenza Artificiale Vietate", che creano un rischio inaccettabile, ad esempio perché violano i diritti fondamentali dell’UE. Rientrano in questa nozione i sistemi:

o   che utilizzano tecniche subliminali che agiscono senza che una persona ne sia consapevole o che sfruttano vulnerabilità fisiche o mentali e che siano tali da provocare danni fisici o psicologici;

o   in uso alle autorità pubbliche, di social scoring, di identificazione biometrica in tempo reale a distanza negli spazi accessibili al pubblico, di polizia predittiva sulla base della raccolta indiscriminata e di riconoscimento facciale, se non in presenza di esigenze specifiche o di autorizzazione giudiziale.

 

-          "Sistemi di IA ad Alto Rischio", che presentano un rischio alto per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali delle persone, quali i sistemi che permettano l’Identificazione e la categorizzazione biometrica di persone fisiche, di determinare l'accesso agli istituti di istruzione e formazione professionale, di valutare prove di ammissione o di svolgere attività di selezione del personale, utilizzati per elezioni politiche e diverse altre ipotesi indicate espressamente dalla normativa.

 

L’immissione sul mercato e l’utilizzo di questa tipologia di sistemi, non è quindi vietata ma richiede il rispetto di specifici requisiti, quali:

-          la creazione e il mantenimento di un sistema di gestione del rischio: è obbligatorio sviluppare e mantenere attivo un sistema di gestione del rischio per i sistemi di intelligenza artificiale (IA);

-          l’adozione di criteri qualitativi per dati e modelli: i sistemi di IA devono essere sviluppati seguendo specifici criteri qualitativi per quanto riguarda i dati utilizzati e i modelli implementati, al fine di garantire l'affidabilità e l'accuratezza dei risultati prodotti.

-          la produzione di documentazione su sviluppo e funzionamento: è richiesta una documentazione adeguata riguardo allo sviluppo di un determinato sistema di IA e al suo funzionamento, anche al fine di dimostrare la conformità del sistema alle normative vigenti.

-          la trasparenza verso gli utenti: è obbligatorio fornire agli utenti informazioni chiare e comprensibili sul funzionamento dei sistemi di IA, per renderli consapevoli delle modalità di utilizzo dei dati e di come i risultati sono generati.

-          la supervisione umana: i sistemi di IA devono essere progettati in modo da poter essere supervisionati da persone fisiche.

-          L’accuratezza, robustezza e cibersicurezza: è obbligatorio garantire che i sistemi di IA siano affidabili, accurati e sicuri. Ciò implica l'adozione di misure per prevenire errori o malfunzionamenti che potrebbero causare danni o risultati indesiderati.

 

In alcuni casi, la valutazione della conformità può essere effettuata autonomamente dal produttore dei sistemi di IA, mentre in altri casi potrebbe essere necessario coinvolgere un organismo esterno.

 

-          "Sistemi di IA a Rischio Limitato", che non comportano pericoli considerevoli e per i quali sono previsti requisiti generali di informazione e trasparenza verso l’utilizzatore. Ad esempio, i sistemi che interagiscono con le persone (e.g. assistente virtuale), che sono utilizzati per rilevare emozioni o che generano o manipolano contenuti (e.g. Chat GPT), devono rendere adeguatamente noto l’utilizzo dei sistemi automatizzati, anche al fine di permettere l’adozione di scelte informate o di rinunciare a determinate soluzioni.

Il testo in esame è strutturato in modo flessibile e permette di essere applicato - o in caso adeguato - ai diversi casi che lo sviluppo tecnologico può raggiungere. Il regolamento tiene inoltre conto e garantisce l’applicazione di normative complementari, come ad esempio la disciplina privacy, di tutela del consumatore e di Internet Of Things (IoT).

Il regolamento prevede, in caso di violazione, sanzioni fino ad un valore massimo di Euro 30 milioni o fino al 6 % del fatturato mondiale totale annuo dell'esercizio precedente.

Come detto, il testo approvato dal Parlamento Europeo sarà sottoposto all’esame del Consiglio, con l’obiettivo di essere approvato entro la fine del 2023. In tal caso sarà la prima normativa che a livello mondiale affronta in modo tanto diffuso e dettagliato le possibili problematiche derivanti dall’immissione sul mercato di sistemi AI.

Sarà nostra cura fornire aggiornamenti sulle future evoluzioni normative

Per dettagli e informazioni contattare David Ottolenghi di Clovers

 

Il Tribunale di Milano si pronuncia su una vertenza avente ad oggetto la tutela della panca “Amore”

È della fine di dicembre l’ordinanza con cui il Tribunale di Milano (in sede di reclamo) ha riconosciuto l’illecito di concorrenza sleale per imitazione servile nei confronti della panca “Amore” prodotta da Slide S.r.l., creata dal fondatore di Slide, Giuseppe Colonna Romano, e commercializzata da Slide da oltre 10 anni.

Slide è specializzata nella creazione e produzione di elementi di arredo, principalmente da esterni, fra cui particolari oggetti realizzati in polietilene, e nel 2021 Slide aveva notato la commercializzazione e promozione da parte di una società veneta, sua competitor, di una panca fortemente simile alla panca “Amore” denominata “Welcome”.

Slide ha quindi prontamente adito il Tribunale di Milano affinché, a fronte della illecita condotta della società veneta, inibisse a quest’ultima la produzione e commercializzazione del prodotto imitativo.

Il Tribunale di Milano, in sede di reclamo, ha accolto le istanze di Slide, riconoscendo innanzitutto l’accreditamento sul mercato del prodotto panca “Amore”, quale prodotto iconico e largamente conosciuto e apprezzato dal pubblico, nonché l’illecita ripresa dei caratteri essenziali ed individualizzanti della panca AMORE da parte di una società concorrente.

In particolare, il Tribunale ha stabilito che il “segno distintivo imitato è, qui, dato dalla forma esteriore del prodotto e consiste in un segno tridimensionale, di cui la reclamante ha idoneamente dimostrato, secondo il Collegio, per un verso, tutti i requisiti occorrenti per l’invocata tutela, cioè capacità distintiva, notorietà e novità, nonché, altresì, per altro verso, la confondibilità tra i due prodotti”. Per apprezzare l’esistenza di tali requisiti di capacità distintiva, notorietà e novità in capo alla Panca Amore, il Tribunale ha quindi confermato che:

  • la Panca Amore è “una panca formata da una parola costituita da lettere dell’alfabeto, ed è proprio la forma esteriore ad avere efficacia individualizzante e diversificatrice del prodotto della reclamante, rispetto ad altre panche presenti sul mercato. Inoltre, in tutta evidenza logica, avuto riguardo alla funzione propriamente e comunemente assolta da una panca, si tratta, qui, di forma meramente arbitraria e capricciosa, e non di forma funzionale, indispensabile o inderogabile per il conseguimento di un determinato risultato tecnico, e neppure utile, pur anche ove non strettamente necessaria ad un certo risultato (qui, la seduta);
  • Slide “ha fornito idonea prova documentale di avere iniziato a commercializzare panca “Amore” dal 2015 -diversamente dalla panca “Welcome”, presentata per la prima volta sul mercato solo a fine ottobre 2021 -e pure che, “grazie agli investimenti promozionali posti in essere dalla reclamante, nonché alla vasta commercializzazione, in Italia ed all'estero, della Panca Amore, essa si è così accreditata sul mercato da essere immediatamente riconoscibile dal pubblico [..] tramite rassegna stampa, numero di pezzi venduti e relativo fatturato realizzato, utilizzi espositivi, promozioni sponsorizzate, esposizioni in saloni per arredamenti”;
  • in relazione alla forma, “non risulta idoneamente provato che, prima di Slide, o anche solo in contemporanea, altre imprese del settore abbiamo prodotto e messo in vendita manufatti con le peculiari caratteristiche proprie di panca Amore”.

In conclusione, in relazione ai prodotti sopra indicati, il Tribunale ha rilevato la sussistenza sia di tutti i requisiti di tutela della forma imitata, sia il pericolo di confusione per imitazione servile, sulla scorta dell’impressione generale che deriva dal loro aspetto d’insieme, rispetto alla quale gli elementi differenziali consistono in meri singoli dettagli, inidonei ad imprimersi nella mente del consumatore in modo tale da permettere di distinguere la provenienza da imprenditore diverso da Slide.

Si tratta di un importante provvedimento che, oltre a riconoscere il valore del design ideato e prodotto da Giò Colonna Romano per Slide, consentirà alla stessa di proteggere un prodotto unico come Panca Amore da eventuali ulteriori copie e imitazioni.

IDEAS POWERED FOR BUSINESS – IL FONDO 2023 PER LE PMI

Laura Bussoli - Senior Associate

Eleonora Carletti - Associate

Anche per il 2023 l’Unione Europea mette a disposizione un fondo a sostegno finanziario di piccole e medie imprese (PMI) con sede all’interno della Unione Europea che vogliano investire nella protezione dei propri assets di proprietà intellettuale, in particolare, marchi e disegni/modelli.

Il Fondo Ideas Powered for Business, che prevede una dotazione di circa 25 milioni di euro, mira ad evitare che la crisi economica si traduca per la piccola media impresa in una rinuncia obbligata alla tutela del proprio patrimonio di proprietà industriale.

I finanziamenti messi a disposizione delle imprese verranno erogati, sotto forma di voucher che verranno rilasciati, su domanda del soggetto interessato, a valle dell’esame da parte dell’EUIPO circa la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dal Fondo. Sotto il profilo soggettivo, le PMI dell’UE sono classificate come illustrato nella seguente tabella:

Sotto il profilo oggettivo, i voucher possono essere utilizzati solo per attività successive al loro rilascio e potranno riguardare solo le seguenti attività:

  • Voucher 1: servizi di pre-diagnosi della PI (c.d. IP Scan). Si tratta di uno strumento di cui possono usufruire le PMI, servendosi dell’ausilio di esperti di proprietà intellettuale per lo sviluppo di una strategia aziendale in riferimento alla protezione dei propri assets IP. La sovvenzione è prevista per un importo massimo pari ad euro 1.350 per ciascuna impresa;
  • Voucher 2: domande per la registrazione di marchi, disegni e modelli fino a un importo massimo di euro 1.000 per ciascuna impresa. Più nel dettaglio sarà possibile ottenere un rimborso:

a) rimborso del 75 % sulle tasse per le domande di marchi e/o di disegni o modelli UE, sulle tasse per le classi aggiuntive e sulle tasse per l’esame, la registrazione, la pubblicazione e il differimento della pubblicazione;

b) rimborso del 75 % sulle tasse nazionali o regionali per le domande di marchi e/o di disegni o modelli, sulle tasse per le classi aggiuntive e sulle tasse per l’esame, la registrazione, la pubblicazione e il differimento della pubblicazione;

c) rimborso del 50 % sulle tasse di base per le domande di marchi e/o di disegni o modelli, sulle tasse di designazione e sulle tasse di designazione successiva al di fuori dell’UE. Sono escluse le tasse di designazione dei paesi UE, così come le tasse di gestione addebitate dall’ufficio di origine.

I voucher potranno quindi essere utilizzati per ottenere il rimborso delle tasse in relazione ai marchi ed ai disegni e modelli depositati direttamente presso l’EUIPO e/o presso gli uffici di proprietà intellettuale degli Stati membri (rimborso fino al 75%), nonché per i marchi depositati tramite il sistema internazionale di Madrid ed i disegni e modelli depositati tramite il sistema internazionale dell’Aia (rimborso fino al 50%). Sono escluse dalla copertura dei voucher in esame le spese legali. È possibile presentare domanda dal 23 gennaio 2023 all’8 dicembre 2023, tenendo a mente che i fondi sono limitati e vengono erogati in base all’ordine di presentazione delle domande (“first come, first served”). La domanda di sovvenzione deve essere presentata on-line, utilizzando il modello (eForm) disponibile alla pagina https://euipo.europa.eu/ohimportal/it/help-sme-fund-2023 ed allegando la documentazione volta a dimostrare i requisiti soggettivi necessari. Prima di avviare la procedura di presentazione della domanda per il Fondo per le PMI, è necessario avere già definito una chiara strategia di protezione della PI. Occorre quindi disporre di tutte le informazioni e di tutti i disegni o modelli relativi alle proprie risorse di PI (ad esempio marchi e loghi, invenzioni, nuove tecnologie, software originale, nuovi disegni o modelli, processi unici ecc.). Lo Studio Legale Associato Clovers è disponibile per ogni richiesta di assistenza o informazione aggiuntiva che si desidera avere in merito alla procedura per ottenere i finanziamenti dell’UE.

Thom Browne vince contro adidas nella guerra delle strisce

L’azienda dello stilista newyorkese Thom Browne (dal 2018 parte del Gruppo Ermenegildo Zegna) ha recentemente avuto la meglio in un contenzioso promosso da adidas innanzi al Tribunale del Distretto sud di New York per tutelare il proprio famoso marchio costituito dalle caratteristiche tre strisce parallele. Il tribunale americano ha infatti riconosciuto che Thom Browne, stilista conosciuto per i suoi capi di abbigliamento sartoriali di alta gamma, non ha commesso alcuna violazione dei diritti di marchio della multinazionale tedesca nell’apporre sui propri capi di abbigliamento e modelli calzature un motivo costituito da quattro strisce parallele.

In realtà, il contenzioso in materia di marchi tra le due aziende pendeva già da qualche anno. Infatti, già 2018 adidas aveva avviato innanzi all’Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) un’opposizione contro una domanda di marchio comunitario depositata da Thom Browne per tutelare un segno costituito da quattro strisce parallele. A tale opposizione ne erano poi seguite nel 2020 altre innanzi allo United States Patent and Trademark Office con cui adidas aveva contestato tre domande di marchio aventi ad oggetto strisce rosse, bianche e blu destinate a contraddistinguere le calzature prodotte dallo stilista newyorkese. adidas riteneva infatti che tutti i sopra menzionati marchi di cui Thom Browne aveva chiesto la registrazione fossero confondibili con le proprie registrazioni anteriori rivendicanti, appunto, le famose tre strisce.

Tornando all’attuale decisione della corte distrettuale di New York, nel giugno del 2021 il colosso tedesco dell'abbigliamento sportivo aveva intentato una causa contro Thom Browne sostenendo che l’utilizzo da parte di quest’ultimo di un segno costituito da strisce parallele violasse i propri diritti di marchio, oltre a costituire un’attività di concorrenza sleale confusoria nell’ambito dell’abbigliamento sportivo.

L’azienda tedesca sosteneva infatti che l’utilizzo da parte di Thom Browne di un marchio simile al proprio celebre marchio a tre strisce utilizzato da oltre cinquant’anni adidas, ingenerava confusione nei consumatori sull’origine dei prodotti stessi, o che comunque li inducesse a credere che tra le due aziende vi fosse una qualche collaborazione o affiliazione. In particolare, adidas contestava a Thom Browne l’utilizzo delle strisce in modalità similari al proprio marchio a tre strisce, creando così confusione sia nell'aspetto estetico che nell'impressione commerciale complessiva che tali prodotti fornivano. adidas sosteneva che, in particolare i prodotti nella categoria dell'abbigliamento e delle scarpe sportive fabbricati dall’azienda americana, fossero identici alle medesime categorie di prodotti da tempo contraddistinti sul mercato dal proprio marchio a tre strisce.

A parte gli evidenti elementi di similarità dei marchi dei due contendenti, l’impianto accusatorio di adidas era inoltre fortemente incentrato sull’elemento concorrenziale perché, per fondare la propria richiesta risarcitoria di circa 8 milioni di dollari, l’azienda tedesca aveva evidenziato al giudice statunitense che Thom Browne non si limitava al solo utilizzo delle quattro strisce nel proprio core business, ovvero l’abbigliamento di alta moda, ma stava invadendo in modo sempre più aggressivo il segmento dell'abbigliamento sportivo ed in genere i settori dove adidas è leader di mercato. E ciò non solo con l’ampliamento della propria gamma di abbigliamento sportivo, ma anche tramite accordi promozionali come ad esempio quello concluso da Thom Browne con il famoso club spagnolo del F.C. Barcelona.

Eccependo la totale differenza tra i rispettivi canali distributivi del luxury e dello sportswear, nonché dell’ampio divario tra i prezzi dei rispettivi prodotti, la tesi difensiva dell’azienda americana era ovviamente incentrata sull’insussistenza di qualsiasi rischio di confusione per i consumatori. Forse più interessante e meno scontato è quanto inoltre argomentato dalla difesa di Thom Browne nel rilevare come adidas abbia aspettato molto tempo prima di intraprendere un'azione legale contro il proprio utilizzo delle strisce. Come già avvenuto precedentemente in altre sedi, anche davanti alla corte newyorkese Thom Browne ha evidenziato come adidas già nel 2007 avesse immediatamente contestato l'uso di Thom Browne di tre bande orizzontali sui propri capi di abbigliamento, ma abbia poi invece tollerato per molto tempo l'uso di quattro bande orizzontali parallele sui capi di abbigliamento che successivamente Thom Browne aveva appositamente intrapreso proprio per allontanarsi quanto più possibile dai marchi dell’azienda tedesca.

In sostanza, Thom Browne ha quindi sostenuto che il ritardo di adidas nell’intervenire per impedirgli di utilizzare il proprio marchio a quattro strisce è stato irragionevolmente lungo in quanto il colosso tedesco dello sportswear sapeva, o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere, che Thom Browne utilizzava un design a quattro bande orizzontali. Per la difesa dello stilista newyorkese, ciò avrebbe peraltro anche costituito un’implicita dimostrazione che i rispettivi marchi a strisce sono di fatto coesistiti sul mercato per molto tempo senza che adidas avesse subito alcun danno. Se da una parte Thom Browne ha ovviamente accolto con favore la propria assoluzione facendo notare come da oltre vent’anni anni la propria azienda sia un brand innovativo nel segmento della moda di lusso, dove propone un design del tutto unico e distintivo che combina la sartoria classica con la sensibilità dell'abbigliamento sportivo americano. Dall’altra, adidas ha già dichiarato che impugnerà la sentenza della Corte distrettuale di Manhattan, decisione che non a caso si aggiunge ad altre negative subite dalla multinazionale tedesca in sede EUIPO e che hanno già messo in discussione il carattere distintivo del proprio marchio a tre strisce.

La Cassazione fa il punto sul concetto di parodia nel nostro ordinamento

Laura Bussoli - Senior Associate

Eleonora Carletti - Associate

Il 30 dicembre 2022, con sentenza n. 38165, la Corte di Cassazione si è pronunciata, fra l’altro, sulla legittimità di uno spot pubblicitario avente come protagonista il personaggio di fantasia Zorro. In tale contesto la Suprema Corte ha affrontato alcuni temi particolarmente cari al diritto d’autore, quali la tutela dei personaggi di fantasia indipendentemente dall’opera di cui essi fanno parte ed il riconoscimento, a che condizioni ed entro quali limiti, dell’opera parodistica nel nostro ordinamento. La questione su cui si pronunciata la Corte di Cassazione prende le mosse dalla diffusione, di una campagna pubblicitaria di una nota acqua minerale (“Brio Blu”) che vedeva come protagonista il celebre personaggio di Zorro, nato dalla fantasia dello scrittore Johnston McCulley nel 1919 e su cui la società statunitense Zorro Productions Inc. vanta i diritti d’autore, oltre ad altri diritti di proprietà intellettuale che la stessa non ha mancato di far valere.

Nello spot “incriminato”, Zorro veniva utilizzato, in chiave comica e satirica, per pubblicizzare un prodotto (l’acqua). A fronte quindi di tale utilizzo del personaggio di Zorro, evidentemente avvenuto in assenza di autorizzazione, la società americana ha convenuto in giudizio la società produttrice di acque minerali lamentando la violazione dei propri diritti d’autore sul personaggio di Zorro, oltre ad una lunga serie di violazioni legate appunto alla tutela delle sue privative industriali.

A valle di un primo grado di giudizio, ove il Tribunale di Roma aveva condannato la società convenuta a risarcire la Zorro production Inc. per la violazione inter alia del proprio diritto d’autore, e di un secondo grado, in cui, al contrario, la Corte di Appello, aveva negato invece tale risarcimento, sulla base della caduta – secondo i giudici - in pubblico dominio del personaggio di Zorro (sul quale quindi non vi sarebbero stati validi diritti d’autore), la Corte di Cassazione ha messo ordine e ha fissato alcuni punti molto importanti in materia di diritto d’autore, ed in particolare sull’utilizzo parodistico di un’opera (o di un personaggio) su cui – evidentemente - siano ancora validi ed esistenti i diritti d’autore.

Innanzitutto, quindi la Corte di Cassazione ha escluso il venir meno (o caduta in pubblico dominio) dei diritti d’autore sull’opera e sul personaggio di Zorro, ritenendo applicabile, anche alle opere straniere pubblicate in Italia, l’art. 25 della nostra legge sul diritto d’autore (L. 633/1941 “LDA”) che prevede la nota tutela autorale fino al settantesimo anno dopo la morte dell’autore.

In secondo luogo, e questo è il primo aspetto importante della decisione in commento, ha chiarito il contenuto e i limiti della parodia nel nostro ordinamento.

Premesso che il nostro ordinamento non prevede espressamente fra le cd. “eccezioni” alla tutela del diritto d’autore, la “parodia”, secondo la Corte di Cassazione questa trova, invece, pieno riconoscimento nel nostro sistema attraverso la previsione di cui all’art. 70 della legge sul diritto d’autore, “come manifestazione del pensiero”: secondo la Cassazione infatti, “la liceità della parodia dell'opera o del personaggio creati da altri trova quindi il proprio fondamento nell'utilizzazione libera di cui al cit. art. 70, comma 1, L. n. 633/1942” che consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico, “se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera”.

Secondo la Corte di Cassazione, innanzitutto non è affatto necessario, ai fini del suo riconoscimento – e quindi dell’esimente – che la parodia si presenti come un “elaborazione creativa” o originale dell’opera parodiata ai sensi dell’art. 4 LDA, posto che l’agganciamento all’opera principale è elemento congenito e fondamentale della parodia stessa. Peraltro, se così fosse, sottolinea la Suprema Corte, sarebbe necessario di volta in volta ottenere l’autorizzazione dell’autore dell’opera originaria che difficilmente acconsentirebbe al “travisamento comico di questa”.

Inoltre, e questo è il secondo punto della sentenza che pare avere particolare rilievo, il riferimento contenuto nell’art. 70 Lda “purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera” non va affatto interpretato, come ha erroneamente fatto la Corte di Appello di Roma, nel senso di “scopo commerciale o di lucro”.

Le libere utilizzazioni consentite dall’art. 70 della legge sul diritto d’autore – compresa la parodia – sembrano quindi non essere escluse in presenza di un fine di lucro o di uno sfruttamento commerciale che l’autore della parodia può perseguire, anche collateralmente, ma solo in presenza di un rapporto concorrenziale tra l’opera protetta e parodiata e la parodia stessa.

In definitiva, la liceità della parodia viene rivenuta dalla Corte di Cassazione, oltre che nella libera manifestazione del pensiero, nella strumentalità di essa rispetto al fine parodistico e satirico che persegue (non deve cioè, avere finalità e contenuti meramente denigratori e svilenti dell’opera principale o di un suo personaggio) e nell'assenza di un rapporto concorrenziale con l'opera protetta che farebbe invece discendere dalla parodia un illecito sfruttamento dell’opera medesima.

Questa importante interpretazione della parodia nel nostra ordinamento si inserisce perfettamente nel solco interpretativo della Corte di Giustizia che da tempo si è espressa nel senso di cercare bilanciamento ed un equilibrio fra interessi in parte contrapposti, quali sono quelli di coloro che sono titolari dei diritti di riproduzione e di comunicazione al pubblico dell'opera e la libertà di espressione dell'utente di un'opera protetta, il quale si avvalga dell'eccezione per parodia (Corte Giust. UE, C-201/13, cit., 34).

La pandemia, gli hacker e la tutela dell’azienda

Le recenti abitudini di smart working, inaugurate nel 2020 con l’arrivo del COVID, hanno sovvertito i confini informatici delle nostre aziende e quella che un tempo era una LAN aziendale, situata in un’area geografica ben precisa e per questo più facilmente sorvegliabile, ora è invece aperta a tutti coloro, dipendenti e collaboratori, che impiegano dispositivi aziendali sia per collegarsi da remoto alla sede aziendale, sia per un uso personale.

L’aumento delle cyber iterazioni ha quindi creato più punti violabili da hacker esperti che, ad esempio, inviano allegati di posta elettronica dalle sembianze sicure e provenienti da mittenti verificati, ma che invece celano malware, ovvero programmi atti a ledere il sistema operativo ospite, non individuabili nemmeno da antivirus aggiornati.

A conferma di quanto appena detto aggiungiamo alcuni numeri capaci di spiegare meglio di qualunque parola quanto sia in pericolo la nostra incolumità.

Luglio 2021: Il Sole 24ore stima che l’avvento dello smart working abbia portato, da inizio pandemia, a un aumento del numero degli attacchi informatici fino alla percentuale del 238%.

Il rapporto CLUSIT, l’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica, del 2022 riporta che gli attacchi informatici nel mondo siano aumentati del 10%. In tale classifica l’Italia rappresenta il 4° paese maggiormente colpito alle spalle di USA, Germania e Colombia.

Le tre tipologie di attacco maggiormente utilizzate sono le seguenti:

  1. Malware (utilizzo di software malevoli)
  2. Data breach mirati (furto di informazioni riservate con tecniche sconosciute)
  3. Vulnerabilità di sicurezza vero tallone d’Achille sul quale poggiano le prime due forme di attacco.

Nel 2001 l’hacker Kevin Mitnick profetizzava con una frase quello che sarebbe accaduto a distanza di appena venti anni: “Un computer sicuro è un computer spento”.

Noi crediamo che con l’adozione di strumenti appropriati e di specifiche procedure - la formazione delle risorse umane rimane un punto centrale del sistema - sia possibile avere delle misure di sicurezza realmente adeguate.

Oltre alle classiche protezioni hardware e software, sono ora a disposizione delle aziende strumenti di tutela più avanzati ed impiegabili in sinergia:

  • VA - Vulnerability Assessement: monitoraggio continuativo e l’individuazione di tutte le vulnerabilità note sia all’interno del perimetro aziendale, sia nel web, fra cui s’includono anche coloro che per mezzo di dispositivi aziendali si collegano con la sede da remoto. Vulnerabilità che qualora non vengano sanate possono essere facilmente sfruttabili dai criminal hacker (azione di tipo preventivo).
  • SOC - Security Operation Center: monitoraggio continuativo, l’individuazione, l’analisi e la gestione, con il relativo blocco, di tutte le minacce esterne e interne all’azienda e delle intrusioni non autorizzate (azione di tipo proattivo)

Siamo a disposizione per affiancare le aziende ed i professionisti nella scelta di soluzioni software avanzate e nella predisposizione di procedure semplici ed efficaci per la tutela dell’operatività aziendale e dei dati, conformi al GDPR.

Per informazioni: info@clovers.law

UN ALTRO ROUND NEL SEGUITISSIMO CASO DELLE “METABIRKINS”

Lo scorso 30 settembre si è concluso un altro importante round nella battaglia che vede opposti la maison Hermès e l’artista statunitense Mason Rothschild, controversia che ha ad oggetto la collezione di immagini digitali raffiguranti borse Birkin ricoperte di finta pelliccia, appunto intitolata “MetaBirkins'", che Rothschild ha progettato e commercializzato vendendole sotto forma di NFT.

Il caso, promosso lo scorso gennaio dalla maison francese davanti al Tribunale di New York per tutelare i propri diritti di privativa sul celeberrimo modello di borse “Birkin” e, in genere, i propri diritti di proprietà industriale contro l’illecito sfruttamento degli stessi nel metaverso, è seguito con molta attenzione da tutti i giuristi che si occupano di proprietà intellettuale poiché costituisce un autentico leading case in materia, essendo incentrato sull’interferenza tra i diritti di marchio e gli NFT e sulla determinazione della misura in cui i primi si possano estendere nel mondo virtuale.

Nell'ordinanza pubblicata lo scorso 30 settembre, il giudice Jed Rakoff della Corte Distrettuale del Distretto Sud di New York ha rigettato l'appello proposto da Mason Rothschild contro una precedente decisione di maggio con in cui la medesima Corte aveva respinto la richiesta di Rothschild di rigettare l’accusa di Hermès di aver violato i propri diritti di marchio attraverso l’ormai famoso progetto “MetaBirkins”.

Al di là dei tecnicismi processuali e di quelli anche sostanziali connessi alla protezione garantita dal primo emendamento della carta costituzionale americana, reclamata da Mason Rothschild sostenendo la rilevanza artistica delle proprie opere, è importante notare come il giudice americano abbia rilevato che, al pari delle borse Birkin di Hermés, anche le “MetaBirkin” realizzate dall’artista siano comunque prodotti di grande valore. Infatti, i relativi NFT sono stati venduti per oltre un milione di dollari e ciò, secondo il giudice americano, costituirebbe ulteriore conferma della confusione generatasi nei consumatori e nei media i quali sono stati indotti a credere che Hermès fosse in qualche modo collegata alla linea di NFT realizzata da Rothschild o che comunque vi fosse una partnership tra di essi. Questo caso è uno dei sempre più numerosi che hanno ad oggetto il web3 (come ad esempio la causa promossa da Nike contro StockX) che sia i giuristi che i titolari di marchio stanno monitorando con particolare interesse ed attenzione e di cui si dovrà inevitabilmente tenere conto nell’elaborazione delle future strategie di protezione e di deposito dei marchi. Non a caso i brand più importanti e famosi, non solo quelli più noti nel mondo della moda ma anche in altri settori, ultimamente si stanno affrettano a depositare nuove domande di marchio per il loro utilizzo nel metaverso come NFT o altri beni virtuali. Ciò anche a fronte del sempre più crescente interesse mostrato dai consumatori verso le esperienze digitali.

E’ quindi sempre più fondamentale, sia per gli operatori del mondo giuridico che per tutti coloro che mirano a espandersi nel mondo virtuale, comprendere i nuovi limiti di tutela della proprietà intellettuale non limitandosi più a monitorare il solo mondo fisico, ma anche quello digitale per mantenersi sempre al passo con i cambiamenti della tecnologia che inevitabilmente sta influenzando l’evoluzione delle norme del settore della proprietà intellettuale.

L’odissea del diritto d’uso esclusivo

Il diritto d’uso esclusivo è un diritto che nasce negli anni ’60 dalla prassi notarile, come soluzione ad una esigenza del mercato non ancora coperta dal legislatore.

Sono gli anni in cui, nelle grandi città come Milano, l’aumento della popolazione in aree urbane porta un necessario frazionamento degli immobili e la realizzazione di spazi comuni, quali parcheggi, giardini e cortili condominiali. È così che per la prima volta si concede in diritto d’uso esclusivo una parte dell’edificio che è di proprietà dell’intero condominio e di chi ci abita.

Sorgono le prime questioni: Che cos’è? Una servitù prediale? Un diritto reale atipico? Un diritto d’uso? È un diritto perfettamente trasferibile? E’ perpetuo o no?

Una risposta a tutte queste domande è stata data dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 28972 del 2020, come reazione alle grandi operazioni immobiliari che dal 2000 in poi hanno causato incertezze sempre maggiori nel mondo del diritto. La vicenda narrata in Sentenza riguarda la comproprietà di un edificio composto da tre unità immobiliari ad uso commerciale al piano terra, tre unità ad uso residenziale al primo piano, un cortile retrostante e un’area antistante i locali commerciali. Con la divisione dell’edificio è stato assegnato ai negozi posti al piano terra l’uso esclusivo delle porzioni di corte antistante. In seguito allo scioglimento della comunione e alla vendita di una parte dell’immobile, i successivi aventi causa citano in giudizio il titolare dei negozi, che si è appropriato del cortile antistante ed ha realizzato sul cortile una costruzione.

Facciamo un passo indietro: era già noto prima della Sentenza, che l’uso esclusivo non incidesse sulla titolarità delle parti comuni, che per definizione sono di proprietà del condominio, bensì sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini. Alcune parti comuni, in altri termini, si configurano comuni più ad alcuni che ad altri, a seconda del loro collocamento geografico.

È proprio in questa circostanza che la Cassazione con un completo revirement si pronuncia sulla natura del diritto d’uso esclusivo, chiarendo che non si tratta di un diritto reale atipico come precedentemente si pensava, ma piuttosto di un rapporto obbligatorio, valido unicamente tra gli originari contraenti – non trasferibile e pertanto privo di efficacia reale. L’effetto che si genera è la nullità del trasferimento del bene tra i successivi proprietari.

Le argomentazioni della Sentenza partono dalla concezione di uso della cosa comune in ambito condominiale, specificando che “l’uso è uno dei modi attraverso i quali può esercitarsi il diritto, e forma parte intrinseca e caratterizzante, nucleo essenziale del suo contenuto”.

La Corte in altri termini afferma che la clausola attraverso la quale si concede ad una singola unità immobiliare l’uso esclusivo di un’area, si è diffusa attraverso la prassi negoziale, in particolare notarile, teorizzata al fine di risolvere i problemi catastali nel corso di liti in cui si controverteva della titolarità in capo ad un condominio della porzione di una parte comune, ai sensi dell’art. 1117 cc.

Anzitutto, la Cassazione passa in rassegna tutto ciò che l’uso esclusivo non è, demolendo completamente l’impostazione precedentemente data dal Notariato.

L’uso esclusivo, infatti, quale connotazione del diritto di proprietà ex art. 832 cc, non è riconducibile al diritto reale d’uso ex art. 1021 cc. di cui l’uso esclusivo di parte comune nel condominio non mutua i limiti di durata, trasferibilità e modalità di estinzione.

Il diritto d’uso esclusivo non è nemmeno inquadrabile tra le servitù prediali, poiché la conformazione dalla servitù che può essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, poiché ciò determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso nel suo nucleo fondamentale.

Il diritto d’uso esclusivo non è configurabile neppure come prodotto dell’autonomia negoziale: ciò a causa del principio di tipicità e del “numerus clausus” dei diritti reali, in forza del quale solo la Legge può istituire figure di diritti reali e i privati non possono incidere sul loro contenuto.

In definitiva, dopo una lunga analisi, la Suprema Corte afferma il principio di diritto che segue: «La pattuizione avente ad oggetto la creazione del c.d. "diritto reale di uso esclusivo" su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell'edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall'art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi».

L’articolo 1102 cc – infatti - ribadisce il principio generale per cui i condomini non possono impedire agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto: vieta la totale compromissione del godimento spettante ai condomini sulla cosa comune, tuttavia non esclude la possibilità di un uso più intenso da parte di un condomino rispetto agli altri.

La Suprema Corte afferma che per comprendere la sorte del titolo negoziale che prevede il diritto di uso esclusivo è necessario in primis attenersi al significato letterale del testo (che depone senz’altro contro l’interpretazione dell’atto come diretto al trasferimento della proprietà) ed indagare altresì la volontà delle parti, facendo espresso riferimento all’art. 1362 c.c. È necessario quindi analizzare la volontà dell’originario proprietario, per indagare se la volontà al momento della costituzione del condominio fosse limitata all’attribuzione dell'uso esclusivo, riservando la proprietà all'alienante, oppure fosse diretta al trasferimento della proprietà di una pertinenza.

In altri termini il nostro diritto altro non è che un patto, un negozio od un accordo attraverso il quale le Parti mirano alla creazione del diritto di uso esclusivo, ovvero la concessione di un utilizzo perpetuo di natura obbligatoria, avente valore solo inter partes e non erga omnes.

Il Garante Privacy considera la pubblicità “personalizzata” basata sul legittimo interesse illecita e TikTok si adegua

Lo scorso giugno TikTok ha annunciato pubblicamente che a breve avrebbe iniziato ad inviare, ai suoi utenti maggiorenni, pubblicità basata sulla profilazione dei comportamenti durante la navigazione sulla piattaforma, senza richiedere il consenso agli interessati, utilizzando la base giuridica del legittimo interesse del titolare (cioè della stessa TikTok Technology Limited con sede a Dublino).

Nel provvedimento adottato in via d'urgenza il 7 luglio, il Garante Privacy aveva avvertito TikTok che tale attività di trattamento sarebbe stata illecita, non in base al GDPR (regolamento privacy europeo), ma in contrasto con l’art. 5, par. 3 della Direttiva e-privacy (Direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche) e con l’art. 122 del Codice Privacy (italiano).

Infatti, secondo il Garante, la memorizzazione di informazioni, o l'accesso a informazioni già memorizzate, nell'apparecchiatura terminale di un abbonato o di un utente richiede espressamente come base giuridica il consenso esclusivo degli stessi.

Nella diffida il Garante della privacy, alla luce dell'incapacità di TikTok (e di altri social network) di identificare i maggiorenni, aveva evidenziato il rischio che la pubblicità potesse raggiungere anche i minori.

La violazione della Direttiva ePrivacy ha permesso al Garante di intervenire direttamente e con urgenza nei confronti di TikTok, al di fuori della procedura di cooperazione internazionale prevista dal GDPR. Allo stesso tempo, però, l’Autorità aveva informato la Data Protection Commission dell’Irlanda (il Garante Privacy irlandese), paese in cui TikTok ha il suo stabilimento principale, e l'European Data Protection Board.

Attualmente TikTok indica nella sua informativa privacy (visionata in data 13 settembre) che saranno mostrati annunci pubblicitari personalizzati basati sulla attività dell’utente sulla piattaforma e al di fuori della stessa, con il suo consenso (https://bit.ly/3xkqC5e).

TikTok, responsabilmente, ha quindi rinviato la pubblicità personalizzata basata sul legittimo interesse.

Bando Marchi 2022

SCADENZA: Apertura sportello dalle ore 9:30 del 25 ottobre 2022 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili

FONDI DISPONIBILI: 2 Milioni di Euro

Una quota pari al 5% delle risorse finanziarie disponibili è destinata alla concessione delle agevolazioni ai soggetti proponenti che, al momento della presentazione della domanda di accesso alle agevolazioni, sono in possesso del rating di legalità.

BENEFICIARI e REQUISITI AMMISSIBILITA'

  • MPMI – Micro, Piccole e Medie imprese
  • con sede legale ed operativa in Italia
  • che siano regolarmente costituite, iscritte nel Registro Imprese e attive
  • che non siano in stato di liquidazione o scioglimento e sottoposte a procedure concorsuali
  • che siano titolari del marchio oggetti della domanda di partecipazione

Agevolazioni dirette a favorire la registrazione di marchi comunitari presso l'EUIPO (Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) e la registrazione di marchi internazionali presso l'OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale).

Il programma prevede due linee di intervento:

Misura A – Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi dell'Unione Europea presso l'EUIPO(Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) attraverso l'acquisto di servizi specialistici.

Misura B- Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi internazionali presso OMPI(Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) attraverso l'acquisto di servizi specialistici.

MISURA A

Requisiti di ammissibilità:

  • aver effettuato, a decorrere dal 1° giugno 2019, il deposito della domanda di registrazione presso EUIPO del marchio oggetto dell’agevolazione e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di deposito;

NONCHE’

  • aver ottenuto la registrazione, presso EUIPO, del marchio dell’Unione europea oggetto della domanda di partecipazione. Tale registrazione deve essere avvenuta in data antecedente la presentazione della domanda di partecipazione;

Per la Misura A, le agevolazioni sono concesse nella misura del 80% delle spese ammissibili sostenute per le tasse di deposito e delle spese ammissibili sostenute per l’acquisizione dei servizi specialistici e nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia e comunque entro l’importo massimo complessivo per marchio di euro 6.000,00.

MISURA B

Requisiti di ammissibilità:

Aver effettuato, a decorrere dal 1° giugno 2019, almeno una delle seguenti attività:

  • Il deposito della domanda della registrazione presso OMPI di un marchio registrato a livello nazionale presso UIBM o di un marchio dell'Unione Europea registrato presso EUIPO e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;
  • Il deposito della domanda di registrazione presso OMPI di un marchio per il quale è già stata depositata domanda di registrazione presso UIBM o presso EUIPO e avere ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;
  • il deposito della domanda di designazione successiva di un marchio registrato presso OMPI e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;

NONCHE'

  • Aver ottenuto la pubblicazione della domanda di registrazione sul registro internazionale dell'OMPI (Madrid Monitor) del marchio oggetto della domanda di partecipazione. La pubblicazione della domanda di registrazione del marchio sul registro internazionale dell'OMPI deve essere avvenuta in data antecedente la presentazione della domanda di partecipazione.

Per la Misura B, le agevolazioni sono concesse nella misura dell’90% delle spese ammissibili sostenute per l’acquisizione dei servizi specialistici e per le tasse di registrazione nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia e comunque entro l’importo massimo complessivo per marchio di euro 9.000,00.

Per la misura B, per le domande di registrazione internazionale depositate dal 1° giugno 2019 per uno stesso marchio è possibile effettuare designazioni successive di ulteriori Paesi; in tal caso le agevolazioni sono cumulabili fino all’importo massimo per marchio di € 9.000,00.

Per la misura B, per le domande di registrazione internazionale depositate prima del 1° giugno 2019 è possibile richiedere agevolazioni esclusivamente per le designazioni successive effettuate dopo il 1° giugno 2019; in tal caso l’importo massimo delle agevolazioni per marchio è di € 4.000,00.

Ciascuna impresa può presentare più richieste di agevolazione, sia per la Misura A sia per la Misura B, fino al raggiungimento del valore complessivo di € 25.000,00.

Per uno stesso marchio è possibile cumulare le agevolazioni previste per le misure A e B (qualora nella misura B non si indichi l’Unione europea come Paese designato) nel rispetto degli importi massimi indicati per marchio e per impresa. Per lo stesso marchio è possibile presentare in un’unica domanda la richiesta di agevolazione sia per la Misura A sia per la Misura B.

Qualora un’impresa possa richiedere l’agevolazione per più marchi, occorre che venga presentata una domanda per ciascuno di essi, pena l’inammissibilità della domanda stessa.

Le agevolazioni di cui al presente Bando non sono cumulabili, per le stesse spese ammissibili o parte di esse, con altri aiuti di Stato o aiuti concessi in regime de minimis o agevolazioni finanziate con risorse UE (es. EUIPO – IDEAS POWERED FOR BUSINESS). Tuttavia, nel limite del 100% delle spese effettivamente sostenute, le agevolazioni sono fruibili unitamente a tutte le misure generali, anche di carattere fiscale, che non sono aiuti di Stato e non sono soggette alle regole sul cumulo.

PRESENTAZIONE DOMANDA

  • La domanda di partecipazione è compilata esclusivamente tramite la procedura informatica e secondo le modalità indicate al sito www.marchipiu2022.it.
  • La domanda di partecipazione è presentata a partire dalle ore 9:30 del 25 ottobre 2022 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili.
  • La domanda di partecipazione, generata dalla piattaforma informatica deve essere firmata digitalmente dal legale rappresentante dell’impresa richiedente l’agevolazione ovvero dal procuratore speciale delegato sulla base di apposita procura speciale.

Clovers rimane a disposizione dei clienti per fornire tutta l’attività di consulenza necessaria.

You deserve a break (from franchising) today!

All’inizio dell’estate l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) ha chiuso un procedimento nei confronti della nota catena di fastfood McDonald's per abuso di dipendenza economica (in violazione dell'art. 9 della Legge n. 192/1998), accettando gli impegni presentati dalla parte indagata per eliminare le possibili distorsioni concorrenziali sul mercato.

Come emerge dalla relazione annuale presentata da Agcm, l’Autorità Garante ha avuto molte occasioni negli ultimi due anni di occuparsi di situazioni di abuso di dipendenza economica: si pensi, ad esempio, ai casi che hanno riguardato Benetton, Poste Italiane e WindTre.

La legge italiana che regola questa materia stabilisce che - a prescindere dalla dominanza o meno su di un mercato - l’abuso di dipendenza economica si verifica quando la “parte forte” di un rapporto contrattuale riesce a determinare determinare un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi con la società dipendente, che può riverberarsi, nel tempo, sull’equilibrio stesso del mercato interessato e provocare, ad esempio, prezzi più alti o minor qualità e innovazione dal lato dell’offerta.

L’istruttoria nei confronti di McDonald’s si inserisce nell’ambito dei rapporti di franchising della catena: in questo caso, gli ex franchisee, parte debole della relazione contrattuale, lamentavano di essersi visti imporre condizioni contrattuali molto rigide e di essere stati assoggettati a tutta una serie di controlli che rendevano, di fatto, impossibile agire con quell’autonomia imprenditoriale che dovrebbe astrattamente caratterizzare il rapporto di franchising.

Formazione a carico dei potenziali franchisee, patto di non concorrenza per tutto il settore di ristorazione, impossibilità di derogare negozialmente allo standard contrattuale proposto e imposizione di una soglia minima di investimenti pubblicitari annui erano solo alcune delle restrizioni che, a detta dei segnalanti, avrebbero sostanziato l’abuso denunciato.

Questi elementi evidenziati nella segnalazione degli ex franchisee sono stati ritenuti sufficienti da Agcm per avviare un’istruttoria a fronte della quale McDonald ha scelto di avvalersi della facoltà di proporre impegni vincolanti al proprio operato e di sottoporli al c.d. “market test”, ovvero alla pubblicazione dei medesimi per consentire ai concorrenti di prendere posizione sull’efficacia o meno delle soluzioni proposte.

In particolare, gli impegni di McDonald avevano ad oggetto l’eliminazione dei costi di formazione a carico dei potenziali franchisee, l’abbassamento del livello di investimento pubblicitario minimo richiesto, la possibilità di negoziare modifiche allo standard contrattuale proposto e l’eliminazione di gran parte delle restrizioni previste nella versione originale del patto di non concorrenza.

Il superamento del market test e l’approvazione finale degli impegni vincolanti proposti da Agcm ha consentito al McDonald’s di chiudere il procedimento senza che fosse irrogata una sanzione pecuniaria, ma, considerata la natura pubblica del potere di Agcm di irrogare sanzioni, l’accettazione degli impegni a chiusura dell’istruttoria non mette al riparo la parte dalla possibilità che gli ex franchisee promuovano un giudizio civile per ottenere il risarcimento del danno dinnanzi all’autorità giudiziaria ordinaria (Ago).

Il Tribunale di Torino si esprime sulla proteggibilità del segno K-way come marchio tra l’eccezione di esaurimento e tematiche di ambush marketing

Recentemente la sezione specializzata del Tribunale di Torino si è espressa in un caso molto interessante che ha riguardato l’applicazione della scriminante prevista in tema di esaurimento del marchio a fronte di una difesa che invocava il pericolo del c.d ambush marketing.

Le parti in causa sono state da un lato la Basicnet, leader nel settore della produzione di abbigliamento e titolare del marchio KWAY e dall’altro la FIFA e la Sony.

Basicnet si era accorta che, nel periodo dal 14 giugno al 15 luglio 2018, nel video ufficiale della canzone scelta come colonna sonora del campionato del mondo di calcio svoltosi in Russia, intitolata “LIVE IT UP” (FIFA World Cup 2018), il cantante Nicky Jam indossava un giubbotto K- WAY. Il marchio K-WAY, impresso dal produttore, era però dapprima offuscato nel video, e poi del tutto eliminato.

Il video è stato visibile per tutto il periodo di svolgimento del campionato mondiale ed al momento dell’introduzione della causa era raggiungibile sul sito web della UEFA e su varie piattaforme digitali tra cui il canale Youtube.

Il contesto della vicenda si inserisce nel contesto della promozione e sponsorizzazione del campionato del mondo di calcio, nell’ambito del quale Sony aveva avuto dalla FIFA l’incarico di realizzare e produrre fra l’altro, il brano musicale e il correlato video ufficiale del Campionato Mondiale di Calcio che si sarebbe svolto in Russia nel 2018, e, nell’ambito di tale incarico, aveva stabilito contrattualmente con il committente ogni dettaglio relativo alla produzione e realizzazione della colonna sonora, anche con riferimento alle esclusive che gli sponsor del Campionato Mondiale di Calcio si erano assicurate.

Una volta firmato il contratto con la FIFA, Sony girava il videoclip della canzone ufficiale della manifestazione interpretato dal cantante Nicky Jam. Il giorno delle riprese il cantante si era recato sul set indossando un giubbotto K-way molto particolare per la foggia ed i colori nonché per essere marchiato con un enorme logo K-Way oltre che dalla tradizionale cerniera colorata che contraddistingue i prodotti K-Way.

I responsabili Sony presenti rappresentavano subito al cantante che non sarebbe stato possibile inquadrare il giubbotto in quanto non vi era l’autorizzazione del produttore della giacca sfoggiata da Nicky Jam e che la stessa Basicnet avrebbe potuto essere accusata di ambush marketing da parte della autorità russe.

Più precisamente i responsabili della Sony rappresentarono al cantante che il giubbotto non avrebbe potuto essere inquadrato in ragione degli impegni contrattuali assunti dalla FIFA nel rispetto dei diritti di esclusiva degli sponsor ufficiali del mondiale di calcio tra cui non vi era la Basicnet.

Sony aveva inoltre rappresentato al cantante che l’utilizzo del marchio K-Way avrebbe potuto condurre a contestazioni da parte delle stesse autorità russe in ragione dell’illecito accostamento alla manifestazione di un marchio ad essa estraneo. A fronte, peraltro, del rifiuto del cantante a girare il video togliendosi il giubbotto Sony decise allora, come soluzione di ripiego, di oscurare il logo in fase di post produzione per cui una volta girato il video il logo K-Way venne cancellato elettronicamente dal giubbotto.

Il video così realizzato veniva anche caricato sul canale Youtube dell’artista.

Accortasi del fatto, Basicnet aveva richiesto a Sony e a FIFA l’immediato ritiro del video e il ripristino del marchio sul giubbotto asserendo che l’alterazione del marchio dell’attrice operata dalle convenute FIFA e Sony costituiva una violazione dei diritti di privativa del K-way a livello nazionale e comunitario, nonché integra una impostesi di concorrenza sleale

Secondo la difesa di Basicnet l’utilizzazione di un capo con apposto un marchio registrato doveva rispettare, anche nella fase post-vendita, la scelta del legislatore di tutelare il marchio registrato non solo contro il rischio di confusione quanto all’origine, ma anche contro l’erosione del valore promozionale incorporato nel segno, qualora di detto segno fosse stato fatto un uso a scopo di lucro.

Secondo parte attrice il comportamento in esame aveva determinato altresì un danno per l’immagine di prestigio dei prodotti e la rinomanza del marchio anche in considerazione del fatto che ogni manipolazione di un marchio è idonea a costituire fonte di lucro sia diretta che indiretta per chi la mette in atto. Sulla base di tali argomentazioni Basicnet chiedeva una inibizione della circolazione del video ed una liquidazione del danno in via equitativa.

Le difese delle parti convenute hanno da parte loro invocato il c.d. principio di esaurimento del marchio sostenendo che tale violazione non sarebbe sussistente laddove la cancellazione del logo sarebbe avvenuta su un prodotto appartenente al cantante e da questi indossato e non destinato, quindi, alla commercializzazione. Per questa ragione non avrebbero potuto trovare applicazione nella specie i principi di eccezione al principio di esaurimento del marchio, difettando in ogni caso l’elemento soggettivo della violazione in quanto la decisione di procedere alla cancellazione elettronica del logo sarebbe avvenuta a seguito della necessità di rispettare i protocolli per evitare la violazione dell’esclusiva riconosciuta agli sponsor dell’evento sportivo.

Inoltre le parti convenute argomentavano che gli organizzatori di tali eventi sono usuali bersagli del c.d. “ambush marketing”, ovvero di quelle attività promozionali promosse a danno degli sponsor ufficiali da parte di altri brand che non sono sponsor ufficiali e che, spesso approfittando dell’assenza di una specifica legislazione, tentano di “agganciarsi” alla manifestazione ed ottenere visibilità con un'azione di marketing non convenzionale.

La giurisprudenza di merito italiana ha già avuto modo di affermare che “ricorrono i "motivi legittimi perché il titolare del marchio si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti", come eccezione al c.d. "principio di esaurimento" in caso di rimozione del codice identificativo apposto sulle bottiglie di un prodotto (nella specie: un distillato). Ed invero, siffatta rimozione era idonea a ledere la reputazione del marchio e del suo titolare, se non altro per l'immagine di minor pregio che le bottiglie manipolate trasmettono ai consumatori, con ricadute negative, per il segno, anche sui prodotti commercializzati integri. Ne consegue che è irrilevante l'area, comunitaria o extracomunitaria, di immissione in commercio delle bottiglie in questione, dal momento che vi sono state alterazioni/manipolazioni della confezione e del prodotto” (Tribunale di Torino 12.5.2008).

Ancora si è affermato che “l'uso del marchio successivo alla prima immissione in commercio del prodotto incorporante il diritto non deve essere causa di detrimento alla reputazione e al prestigio collegati al segno distintivo, ciò costituendo motivo legittimo a che l'esaurimento del diritto non si verifichi” (Tribunale di Bologna 26.3.2010).

A parere della Corte, nel caso di specie la Sony, in sede di post produzione del video, ha pacificamente oscurato il logo K-Way posto sul giubbotto oggetto di causa che aveva indubbiamente una funzione particolarmente caratterizzante il prodotto in oggetto anche tenuto conto delle notevoli dimensioni di tale logo.

La Corte ha ritenuto chiaro che l’utilizzazione digtale del prodotto, oscurato del logo, costituisse una lesione del marchio stesso e, in particolare, della sua reputazione e del suo prestigio. Sotto tale profilo deve, quindi, ritenersi integrata la violazione degli artt. 5 Cpi e 13 Rmue, atteso che nessuna autorizzazione da parte dell’attrice, titolare dei marchi in oggetto, a tale oscuramento era stata concessa né espressamente né tacitamente.

A parere del Tribunale di Torino non può essere condiviso quanto sostenuto dalla convenuta in merito alla insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle citate disposizioni esimenti in quanto non vi sarebbe stata alcuna immissione in commercio del giubbotto essendo lo stesso stato acquistato dal cantante ai fini del proprio personale godimento. L’eccezione non è stata ritenuta pertinente in quanto se è vero che non risulta contestata l’appartenenza del giubbotto al cantante, vero è anche che proprio con l’utilizzo di quel giubbotto e all’alterazione del marchio che lo contraddistingue che il video è stato girato e diffuso a livello mondiale, vista la risonanza dell’evento, con tutte le conseguenti ricadute commerciali a vantaggio, anche delle convenute.

Appare evidente, quindi, a parere della Corte che nel caso di specie non vi è stata alcun esaurimento del marchio atteso che il giubbotto, pur appartenendo al cantante, non è stato utilizzato a scopo di mero godimento nell’ambito della fisiologica immissione nel circuito economico ma specificamente al fine di realizzare un video destinato alla promozione di un evento di rilevanza mondiale quale il Mondiale di calcio Russia 2018.

Realizzazione e diffusione di tale video che sono avvenute proprio ad opera delle parti convenute.

Né può trovare ancora accoglimento la tesi secondo cui gli illeciti commessi difetterebbero dell’elemento soggettivo, laddove dalla stessa narrazione dei fatti operata dalla parte convenuta emerge inequivocabilmente come la stessa fosse ben consapevole del comportamento tenuto essendo l’oscuramento stato eseguito proprio dalla Sony al fine di aggirare i divieti di utilizzo di prodotti non riferibili agli sponsor ufficiali della manifestazione. Secondo il Tribunale di Torino, la posizione della parte attrice è, pertanto, da riconoscersi meritevole di tutela non sotto il profilo di un suo diritto a vedere accostato il suo marchio alla manifestazione sportiva in oggetto, diritto peraltro neppure reclamato dalla stessa attrice, bensì sotto il profilo del diritto della stessa a non vedersi alterare il logo del proprio prodotto e, conseguentemente, a non vedersene ledere il prestigio e il valore promozionale.

Sotto tale profilo, pertanto, la condotta posta in essere dalle parti convenute è da ritenersi contrastante con i principi di cui agli artt. 5 Cpi e 13 Rmue nonché di cui allo stesso art. 20 Cpi, rappresentando l’oscuramento del logo una ipotesi di contraffazione.

Il comportamento rileva, inoltre, anche sotto il profilo della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. in quanto è pacifico che Basicnet operi anche sul mercato della promozione di video pubblicitari dei propri prodotti e la diffusione di un video contenente un prodotto Basicnet modificato senza il suo consenso in modo da alterarne la capacità distintiva rappresenta un’ipotesi di comportamento non conforme alla correttezza professionale rilevante ai sensi dell’art. 2598 co. 3 cpc.

Per l’insieme di tali ragioni, pertanto, la pretesa attorea deve essere considerata fondata.

Non vale, inoltre a parere della Corte, il richiamo alla pratica dell’ambush marketing formulato dalle parti convenute. Ricorre tale pratica “allorché una campagna di comunicazione lasci intendere contrariamente al vero che un soggetto sia sponsor di un evento” (Giurì Codice Autodisciplina Pubblicitaria 8.7.2014). La pratica dell’ambush marketing è considerata ingannevole, poiché induce in errore il consumatore medio sull’esistenza di rapporti di sponsorizzazione ovvero di affiliazione o comunque di collegamenti con i titolari di diritti di proprietà intellettuale, invece insussistenti (in tal senso Tribunale di Milano 15.12.2017) e costituisce un’ipotesi particolare di concorrenza sleale contraria alla correttezza professionale che può trovare tutela nell’alveo generale dell’art. 2598,3° comma, c.c. (Tribunale Milano 15.12.2017).

In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che “con la figura dell’ambush marketing il concorrente sleale associa abusivamente l’immagine ed il marchio di un’impresa ad un evento di particolare risonanza mediatica senza essere legato da rapporti di sponsorizzazione, licenza o simili con l’organizzazione della manifestazione. In tal guisa lo stesso si avvantaggia dell’evento senza sopportarne i costi, con conseguente indebito agganciamento all’evento ed interferenza negativa con i rapporti contrattuali tra organizzatori e soggetti autorizzati. Si tratta dunque di illecito ove i soggetti danneggiati sono l'organizzatore dell'evento, il licenziatario (o sponsor) ufficiale ed infine il pubblico.” (Tribunale Milano 15.12.2017).

Da quanto sopra esposto emerge chiaramente come nel caso di specie non possa in alcun modo ravvisarsi una pratica di ambush marketing da parte di Basicnet. Quest’ultima non ha, infatti, compiuto alcuna attività associazione del proprio marchio all’evento del Mondiale di calcio di Russia 2018 e neppure ha acconsentito a che tale associazione venisse eseguita da altri. Sono state, infatti, le convenute ad utilizzare il prodotto Basicnet alternandone il logo nel tentativo di renderlo riconoscibile al fine di evitare di incorrere nella violazione degli accordi presi con gli sponsor ufficiali e con la stessa normativa russa. Nessuna attività e conseguentemente responsabilità può essere imputata alla Basicnet in relazione all’accaduto laddove questa è venuta a conoscenza dell’accaduto solo a seguito della diffusione del video.

Stop all’uso degli Analytics anche da parte del Garante italiano: alcune soluzioni alternative

La gestione di un sito web o di un'applicazione mobile richiede l'utilizzo di statistiche sul traffico e/o sulle prestazioni, che sono spesso essenziali per la fornitura del servizio. Lo standard di mercato, in questo settore, è Google Analytics (GA), che dovrà presto cambiare perché è stato dichiarato illecito.

Il Garante Privacy italiano ha di recente sanzionato il gestore di un sito web, con un provvedimento del 9 giugno 2022. Il suo sito utilizzava il servizio GA che trasferisce i dati degli utenti europei negli Stati Uniti, paese privo di un adeguato livello di protezione. Un autorevole membro del collegio del Garante ha inoltre confermato che sono partiti una serie di controlli a tappeto su questa tematica (come da programmazione del Garante).

Dall’istruttoria del Garante privacy italiano è emerso che i gestori dei siti web che utilizzano GA raccolgono, mediante cookie, informazioni sulle interazioni degli utenti con i predetti siti, le singole pagine visitate e i servizi proposti. Tra i molteplici dati raccolti, indirizzo IP del dispositivo dell’utente e informazioni relative al browser, al sistema operativo, alla risoluzione dello schermo, alla lingua selezionata, nonché data e ora della visita al sito web. Tali informazioni (che sono dati personali) sono risultate oggetto di trasferimento verso gli Stati Uniti. Pertanto, il trattamento è stato dichiarato illecito.

Ciò è potuto avvenire perché la Corte di giustizia dell'Unione europea, con sentenza del luglio 2020, ha dichiarato nullo il Privacy Shield, un trattato internazionale che regolava i trasferimenti di dati tra l'Unione europea e gli Stati Uniti. Tale trattato non offriva garanzie adeguate contro il rischio di accesso illecito ai dati personali dei residenti europei da parte delle autorità americane.

Nel marzo 2022 la Commissione europea e gli Stati Uniti hanno adottato una dichiarazione congiunta su una futura decisione di regolamentare adeguatamente i flussi di dati verso gli Stati Uniti. Si tratta solo un annuncio politico, senza alcun valore giuridico. Infatti, il 6 aprile 2022 il l’European Data Protection Board (l’EDPB ovvero il comitato che riunisce le autorità privacy europee) ha rilasciato una dichiarazione in cui ha chiarito che tale dichiarazione non costituisce un quadro giuridico su cui le organizzazioni possono fare affidamento per trasferire i dati negli Stati Uniti.

Il contributo della CNIL

L’autorità privacy che, ad oggi, ha analizzato questi aspetti in maniera più “pratica” è quella francese.

L’autorità privacy francese (CNIL) ha precisato che l’utilizzo di GA è considerato illecito ai sensi del GDPR e rimane tale anche ricorrendo a pratiche di preventiva pseudonimizzazione o crittografia dei dati oggetto di trasferimento.

Sorge allora spontanea una domanda. È possibile continuare a trasferire i dati fuori UE utilizzando la base giuridica del consenso degli interessati?

Il consenso esplicito degli interessati è una delle possibili deroghe previste per alcuni casi specifici dall'articolo 49 del GDPR. Tuttavia, come indicato nelle linee guida del EDPB queste deroghe possono essere utilizzate solo per trasferimenti non sistematici e, in ogni caso, non possono costituire una soluzione permanente di lungo termine, in quanto il ricorso a una deroga non può diventare la regola generale.

Non potendo validamente utilizzare il consenso esplicito (e neppure GA), esistono degli strumenti alternativi che siano legittimi?

La CNIL ha pubblicato un elenco di software che possono essere esentati dal consenso se opportunamente configurati.

Questo elenco comprende strumenti che hanno già dimostrato alla CNIL di poter essere configurati in modo da limitarsi a quanto strettamente necessario per la fornitura del servizio, senza quindi richiedere il consenso dell'utente.

Qualsiasi sia il software utilizzato, è sempre necessario verificare, per quanto possibile, che la società che lo produce non abbia legami patrimoniali o organizzativi con una società madre situata in un paese che consente ai servizi di intelligence di richiedere l'accesso a dati personali situati in un altro territorio (ad esempio: Stati Uniti ma anche Cina) ed è necessario valutare il quadro giuridico del paese di esportazione dei dati.

L’elenco dei software suggeriti dalla CNIL

Senza scendere nel dettaglio della configurazione richiesta per utilizzare legittimamente questi software (che dipende da parecchie variabili) indichiamo di seguito l’elenco indicato dalla CNIL:

  • Analytics Suite Delta di AT;
  • SmartProfile di Net Solution Partner;
  • Wysistat Business di Wysistat;
  • Piwik PRO Analytics Suite;
  • Abla Analytics di Astra Porta;
  • BEYABLE Analytics di BEYABLE;
  • etracker Analytics (Basic, Pro, Enterprise) di etracker;
  • Web Audience di Retency;
  • Nonli;
  • CS Digital di Contentsquare;
  • Matomo Analytics di Matomo;
  • Wizaly di Wizaly SAS;
  • Compass di Marfeel Solutions;
  • Statshop di Web2Roi;
  • Eulerian di Eulerian Technologies;
  • Thank-You Marketing Analytics di Thank-You;
  • eStat Streaming di Médiamétrie;
  • TrustCommander di Commanders Act.

Per la redazione del presente articolo sono state utilizzate le seguenti fonti, a cui si rinvia per ogni approfondimento.

  • Google: Garante privacy stop all’uso degli Analytics. Dati trasferiti negli Usa senza adeguate garanzie
  • The Court of Justice invalidates Decision 2016/1250 on the adequacy of the protection provided by the EU-US Data Protection Shield (PDF, 322 ko) – CJEU
  • Alternatives to third-party cookies: what consequences regarding consent?
  • [FR] Utilisation de Google Analytics et transferts de données vers les États-Unis : la CNIL met en demeure un gestionnaire de site web

Procedimenti brevettuali EPO e provvedimenti giudiziari d’urgenza

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è recentemente pronunciata sull’interpretazione dell’art. 9.1 della direttiva Enforcement (Direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale) in una controversia brevettuale tra due società tedesche, la Phoenix Contact GmbH & Co. KG, titolare del brevetto e la Harting Electric GmbH & Co. KG, asserita contraffattrice.

La pronuncia del 28 aprile 2022 giunge all’esito di un rinvio pregiudiziale operato dal Landgericht München a fronte di una domanda di tutela d’urgenza presentata dalla Phoenix per la tutela di una privativa brevettuale avente ad oggetto una spina di collegamento con un morsetto per conduttore di protezione, concesso in sede EPO, ma opposto proprio dalla Hartig.

Il giudice aveva ritenuto il brevetto valido e contraffatto, ma non aveva potuto emettere il provvedimento di inibitoria richiesto in quanto vincolato al rispetto della giurisprudenza dell’Oberlandesgericht München che impediva l’adozione di provvedimenti d’urgenza a tutela di una privativa brevettuale fintantoché a validità del titolo stesso non fosse stata confermata dal procedimento di opposizione o d’appello in sede EPO o da una decisione del Bundespatentgericht.

Il quesito pregiudiziale aveva ad oggetto proprio la compatibilità di questo orientamento giurisprudenziale con l’art. 9.1 della Direttiva Enforcement che prevede la possibilità per i giudici degli Stati Membri di emettere nei confronti del presunto autore di una violazione inerente un titolo di proprietà industriale un provvedimento urgente volto a prevenire qualsiasi violazione imminente di un diritto di proprietà intellettuale.

La Corte di giustizia ha in primo luogo ribadito che l’adozione di provvedimenti urgenti a tutela delle privative industriali deve essere sempre subordinata ad un esame “fact specific” in merito alla sussistenza della proteggibilità dei titoli stessi ed alla loro violazione.

Inoltre, la natura stessa del provvedimento d’urgenza deve consentire la cessazione della violazione senza dover attendere una statuizione di merito sulla validità del titolo e la relativa contraffazione proprio in ragione del pregiudizio irreparabile da ritardo che verrebbe a determinarsi nel tempo necessario al compimento dell’accertamento di merito su questi aspetti.

In questo senso, la giurisprudenza dell’Oberlandsgericht München sembrerebbe contrastare con questo principio e privare la tutela d’urgenza dell’effetto utile che la connota, nella misura in cui subordina la concessione di provvedimenti d’urgenza ad un ulteriore accertamento di valdità ad opera dell’EPO o del Bundespatentgerich.

Nel risolvere il quesito pregiudiziale la Corte di Giustizia UE ha quindi concluso che l’art. 9.1 della Direttiva Enforcement “osta a una giurisprudenza nazionale in forza della quale le domande di provvedimenti provvisori per contraffazione di brevetto devono essere respinte, in linea di principio, qualora la validità del brevetto in questione non sia stata confermata, almeno, da una decisione di primo grado emessa in esito a un procedimento di opposizione o di nullità”.

Ambush marketing e tutela degli investimenti promozionali tra passato e futuro

In vista delle prossime olimpiadi invernali, che vedranno i territori montani di Lombardia e Veneto protagonisti della scena sportiva mondiale, un importante strumento normativo tutelerà i marchi d’impresa registrati, anche dalla pubblicità parassitaria e ingannevole, realizzata nell’ambito non solo delle olimpiadi, ma di tutti gli eventi sportivi o fieristici di rilevanza nazionale o internazionale che si svolgeranno sul territorio italiano.

La nuova disciplina che contrasta la pubblicizzazione non autorizzata, è contenuta nel decreto-legge sulle 'Disposizioni urgenti per l'organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 - 2025, nonché in materia di divieto di pubblicizzazione parassitaria', pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.66 del 13 marzo 2020, convertito in legge 8 maggio 2020, n.31 e pubblicato nella G.U. n.121 del 12 maggio 2020 e rappresenta il primo intervento organico del legislatore italiano in questa materia, essendo stato preceduto unicamente da provvedimenti contingenti a singoli eventi sportivi.

La pubblicità non autorizzata, associata ad eventi di risonanza nazionale o internazionale “è definita nella prassi definita come “ambush marketing” e individua la condotta non autorizzata di chi associ il proprio marchio ad un evento internazionale, al solo fine sfruttarne la risonanza mediatica e senza sopportare i costi di sponsorizzazione.

L’ambush marketing da luogo non solo ad un inganno per il pubblico - che assocerà il marchio illecitamente connesso all’evento all’evento stesso - ma anche ad un agganciamento parassitario con gli effettivi sponsor della manifestazione e può costituire una violazione delle norme poste a presidio della concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) e della leale comunicazione pubblicitaria (decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e Codice dell’Autodisciplian Pubblicitaria).

Nello specifico, la norma vieta le seguenti attività:

  1. la creazione di un collegamento indiretto tra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi, idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali;
  2. la falsa dichiarazione nella propria pubblicità di essere sponsor ufficiale di uno degli eventi;
  3. la promozione del proprio marchio o altro segno distintivo, tramite qualunque azione, non autorizzata dall'organizzatore, che sia idonea ad attirare l'attenzione del pubblico, posta in essere in occasione di uno degli eventi, e idonea a generare nel pubblico l'erronea impressione che l'autore della condotta sia sponsor dell'evento sportivo o fieristico medesimo;
  4. la vendita e la pubblicizzazione di prodotti o di servizi abusivamente contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di un evento sportivo o fieristico, ovvero con altri segni distintivi idonei a indurre in errore circa il logo medesimo e a ingenerare l'erronea percezione di un qualsivoglia collegamento con l'evento ovvero con il suo organizzatore.

A seconda delle modalità con cui viene posto in essere, l’ambush marketing viene solitamente classificato in:  “insurgent ambush”, ovvero l’organizzazione di iniziative a sorpresa a ridosso dell’evento;  “predatory ambush”, che utilizza segni distintivi in connessione con o che richiamano anche indirettamente l’evento  “saturation ambush”, che occupa tutti gli spazi pubblicati rimasti rispetto a quelli utilizzati dagli sponsor ufficiali.

Sotto un profilo temporale, i divieti operano dal novantesimo giorno antecedente alla data ufficiale di inizio dell’evento sportivo o fieristico, fino al novantesimo giorno successivo alla sua conclusione, mentre, da un punto di vista dell’operatività, sono esclusi dalla norma i contratti di sponsorizzazione degli atleti, delle squadre e dei partecipanti agli eventi.

L’autorità preposta all’accertamento e alla repressione delle condotte di ambush marketing è l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che può applicare sanzioni pecuniarie amministrative, che variano a seconda dei casi da 100 mila euro a 2,5 milioni di euro.

Recentemente, proprio l’AGCM si è occupata di una caso di ambush marketing relativo alla coppa UEFA 2020 , arrivando a multare l’e-commerce Zalando com 100.000 euro di multa nei confronti di Zalando SE ("Zalando"), per violazione dell'articolo 10, comma 1 e 2, lettera a), del decreto legge n. 16 dell'11 marzo 2020.

La concotta censurata consisteva nell’esposizione, nella stessa piazza di Roma dove era allestita l'area ufficiale di Euro 2020, di un manifesto che domandava "Chi sarà il vincitore?" accompagnato dai segni distintivi di Zalando apposti su di una maglia da calcio affinacato dalle bandiere delle nazionali di Euro 2020.

Questa pubblicità è stata ritenuta illecita dall’AGCM in quanto il manifesto di Zalando era idoneo a far credere ai consumatori che Zalando fosse un partner accreditato dell’evento in quanto creava un’indebita connessione tra Zalando stessa e l’evento del quale non era sponsor ufficiale.

La decisione dell’Agcm è risultata attenta a valorizzare tutte le circostanze del caso e, pertanto, in vista dei prossimi giochi invernali, è di primaria importanza che le imprese valutino attentamente le proprie campagne di marketing prima di incorrere accidentalmente in profili di violazione delle norme pubblicitarie.

Marchi vinicoli tra convalidazione e tolleranza dell’uso

Con una recente ordinanza (09.02.2022) il Tribunale di Torino si è espresso in merito alla contraffazione di alcuni marchi registrati da una cantina vinicola, principalmente per prodotti vinicoli in classe 33. Nella succitata ordinanza il Tribunale torinese ha inoltre colto l’occasione per precisare la differenza tra l’istituto giuridico della convalidazione, previsto dall’art. 28 del Codice di proprietà industriale, ed il diverso, seppur rilevante, fenomeno della tolleranza rispetto all’uso di un marchio di fatto successivo da parte del titolare del marchio registrato anteriore.

I marchi oggetto di causa, riportati sulle etichette delle bottiglie, erano costituiti in particolare dalla parola “SOLO” accompagnata dal tipo di vino (pinot, prosecco, shiraz, etc…) o di bevanda alcolica (grappa). Si trattava di marchi regolarmente registrati dalla titolare a livello nazionale.

In particolare il marchio invocato nel procedimento cautelare era il seguente:

La ricorrente, una cantina vinicola di Frascati, ha contestato quindi ad una concorrente presente nel territorio piemontese, l’utilizzo del marchio di fatto “SOLO PINOT NERO” per prodotti vinicoli, invocando la contraffazione del suo marchio anteriore registrato in forza dell’art. 20 C.p.i. (usando la resistente un marchio identico o molto simile a quello della ricorrente per prodotti identici).

La difesa della resistente si fondava in primo luogo sull’eccezione, rigettata dal giudice, dell’intervenuta convalidazione ai sensi dell’art. 28 C.p.i.. Tale norma prevede che il titolare di un marchio registrato che per 5 anni consecutivi, tolleri, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possa quindi domandarne la nullità né opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato.

La ratio di tale istituto è da rinvenirsi nel contemperamento di due diversi interessi da un lato, quello del titolare del marchio posteriore a non veder vanificati gli investimenti sostenuti nel corso degli anni per l'accreditamento del proprio segno e dall'altro lato, quello del consumatore a non vedersi mutata repentinamente una situazione di fatto ormai consolidata.

La norma è chiara nel riservare quindi il beneficio della convalidazione ai soli marchi posteriori registrati e la giurisprudenza prevalente è allineata sull’interpretazione letterale della norma. Tuttavia negli anni, anche sulla scorta di alcuni spunti dottrinali, tale interpretazione letterale è parsa venire meno. Proprio nel settore vinicolo e proprio il Tribunale di Torino nel 2016 infatti aveva chiaramente lasciato intravedere la possibilità di un’interpretazione (estensione) analogica della norma sulla convalida anche ai marchi di fatto.

Con la sentenza n° 2256/16 del 22.4.16 il Tribunale di Torino infatti aveva chiaramente argomentato circa l’opportunità che il beneficio della convalida fosse esteso ai marchi di fatto: secondo il Tribunale, poiché il marchio di fatto trova tutela nelle norme sulla concorrenza sleale, norme che recepiscono “principi di tutela della ricchezza prodotta dagli investimenti e di avversione verso le iniziative parassitarie”, si deve addivenire “se non ad una applicazione analogica dell’istituto della convalidazione ai marchi non registrati – quantomeno” a negare tutela ad un marchio “rispetto a segni uguali o simili utilizzati per lungo tempo nella consapevolezza e senza l’opposizione del titolare del marchio”.

Ebbene con l’ordinanza del febbraio 2022 lo stesso tribunale di Torino sembra invece tornare sui propri passi: secondo il Tribunale “Premesso che non potrebbe comunque parlarsi di convalidazione del marchio, ex art. 28 CPI, perché tale effetto è prescritto solo con riferimento ai marchi registrati, la tolleranza dell’uso del marchio di fatto altrui, da parte del titolare del marchio registrato anteriore, potrebbe dimostrare l’assenza di un astratto pericolo di confusione circa la diversa provenienza imprenditoriale e comportare un limite alla tutelabilità del marchio anteriore”.

Pur negando quindi estensioni analogiche della norma sulla convalidazione ai marchi non registrati, il Tribunale mette in risalto la rilevanza, ai fini dell’esclusione del rischio di confusione e quindi della contraffazione, di comportamenti di tolleranza rispetto ai marchi di fatto posteriori da parte di titolari di marchi registrati anteriori. Tuttavia anche nel caso della tolleranza, il Tribunale ricorda i limiti dell’operatività della stessa: “la fattispecie della “tolleranza” non è ravvisabile laddove non sia provata una conoscenza effettiva, da parte del titolare del marchio anteriore, del successivo utilizzo, per un certo tempo, del marchio di fatto altrui”.

“Ai fini del riconoscimento di questa ”tolleranza” non è sufficiente una presunta inattività del titolare del marchio anteriore rispetto all’utilizzo del marchio posteriore, ma è necessario che il titolare del marchio registrato anteriore abbia posto in essere, pur conoscendo tale utilizzo, dei comportamenti che possano considerarsi di tolleranza di tale uso (Trib. Venezia Sez. PI, 20/10/2006).”

L’onere della prova di questa tolleranza incombe sul titolare del marchio posteriore. Il titolare del marchio posteriore deve provare, non soltanto che il titolare del marchio anteriore era a conoscenza del deposito del marchio posteriore, in modo concreto e non su base presuntiva, ma anche che il titolare del marchio anteriore si è dimostrato tollerante a tale uso per un certo periodo. E’ necessaria, dunque, la prova (o il relativo fumus) dell’effettiva conoscenza dell’utilizzo del marchio posteriore, perché in assenza di una effettiva conoscenza dell'uso dell'altrui marchio, non si può neppure parlare di tolleranza (Trib. Torino 15/1/2010).