ARTE e BENI CULTURALI, NUOVI REATI e COMPLIANCE: L’ULTIMA SPINTA ALL’ADOZIONE DEL MODELLO 231

Proprio in questi giorni la Camera ha approvato in via definitiva la proposta di legge recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”.

Il testo riforma le disposizioni penali a tutela del patrimonio culturale – attualmente contenute prevalentemente nel Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42 del 2004) – e le inserisce all’interno del Codice penale con l’obiettivo di operare una profonda riforma della materia, ridefinendo l’assetto della disciplina nell’ottica di un tendenziale inasprimento del trattamento sanzionatorio, come previsto dalla Convenzione di Nicosia del Consiglio di Europa ratificata dall’Italia, e dunque, si crede, con finalità maggiormente preventive.

A seguito delle modifiche approvate dal Senato, la proposta di legge si compone di 7 articoli attraverso i quali: i) colloca nel codice penale gli illeciti penali attualmente ripartiti tra codice penale e codice dei beni culturali; ii) introduce nuove fattispecie di reato; iii) innalza le pene edittali vigenti, dando attuazione ai principi costituzionali in forza dei quali il patrimonio culturale e paesaggistico necessita di una tutela ulteriore rispetto a quella offerta alla proprietà privata; iv) introduce aggravanti quando oggetto di reati comuni siano beni culturali; v) interviene sull’articolo 240-bis c.p. ampliando il catalogo dei delitti in relazione ai quali è consentita la c.d. confisca allargata; vi) modifica il decreto legislativo n. 231 del 2001, prevedendo la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche quando i delitti contro il patrimonio culturale siano commessi nel loro interesse ovvero a loro vantaggio; vii) modifica il comma 3 dell’art. 30 la legge n. 394 del 1991 in materia di aree protette; viii) interviene sulla disciplina delle attività sotto copertura prevedendone l’applicabilità anche nell’ambito delle attività di contrasto dei delitti di riciclaggio e di autoriciclaggio di beni culturali svolte da ufficiali di PG degli organismi specializzati nel settore.

Per quanto concerne le modifiche al Codice penale, viene inserito il nuovo titolo VIII-bis Dei delitti contro il patrimonio culturale ed introdotti i seguenti articoli:

  • 518-bis Furto di beni culturali
  • 518-ter Appropriazione indebita di beni culturali
  • 518-quater Ricettazione di beni culturali
  • 518-quinquies Impiego di beni culturali provenienti da delitto
  • 518-sexies Riciclaggio di beni culturali
  • 518-septies Autoriciclaggio di beni culturali
  • 518-octies Falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali
  • 518-novies Violazioni in materia di alienazione di beni culturali
  • 518-decies Importazione illecita di beni culturali
  • 518-undecies Uscita o esportazione illecite di beni culturali
  • 518-duodecies Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici
  • 518-terdecies Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici
  • 518-quaterdecies Contraffazione di opere d’arte
  • 518-quinquiesdecies Casi di non punibilità
  • 518-sexiesdecies Circostanze aggravanti
  • 518-septiesdecies Circostanze attenuanti
  • 518-duodevicies Confisca
  • 518-undevicies Fatto commesso all’estero
  • 707-bis Possesso ingiustificato di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli.

Con riferimento alle modifiche apportate al D. lgs. n. 231/2001, è prevista l’introduzione delle seguenti norme:

  • Art. 25-septiesdecies Delitti contro il patrimonio culturale
    • Appropriazione indebita di beni culturali
    • Importazione illecita di beni culturali;
    • Uscita o esportazione illecite di beni culturali;
    • Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e paesaggistici;
    • Contraffazione di opere d’arte;
    • Furto di beni culturali;
    • Ricettazione di beni culturali;
    • Falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali.
  • Art. 25-duodevicies
    • Riciclaggio di beni culturali;
    • Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici.

È da notare come gli aspetti di maggior rilievo e di impatto della riforma abbiano ad oggetto l’inserimento:

  1. all’interno del catalogo dei delitti in relazione ai quali è consentita la confisca allargata dei reati di ricettazione di beni culturali, di impiego di beni culturali provenienti da delitto, di riciclaggio di beni culturali, di autoriciclaggio di beni culturali e di attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali, nonché
  2. all’interno del catalogo dei reati presupposto di cui al D.lgs. n. 231/2001, nel caso di commissione dei suddetti reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente, dei due nuovi articoli 25 septiesdecies e 25 duodevicies.

Peraltro, questo ulteriore allargamento del catalogo dei reati del D. lgs. n. 231/2001 si colloca a strettissimo giro dopo l’altrettanto recente introduzione del nuovo art. 25 octies.1 avvenuta a seguito dell’attuazione della direttiva 2019/713/UE sulla lotta contro le frodi e le falsificazioni dei mezzi di pagamento diversi dai contanti (comprese le criptovalute e le monete virtuali) avvenuta con il D. lgs. n. 184/2021 che ha modificato gli artt. 493-ter e 640-ter c.p. ed introdotto l’art. 493-quater c.p.

A fronte dell’inasprimento delle sanzioni e dell’allargamento delle responsabilità, come sopra sinteticamente illustrato, soprattutto alla luce dell’inclusione nel catalogo dei reati presupposto ai sensi del D.lgs. n. 231/2001 degli artt. 25 septiesdecies e 25 duodevicies (le cui relative sanzioni possono arrivare sino all’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività) è auspicabile che le Case d’asta, le Gallerie d’arte e, più in generale, tutti gli operatori professionali del settore dotati di una struttura organizzata di medio-grandi dimensioni, svolgano a scopo preventivo attività di analisi dei rischi per valutare la rilevanza dei nuovi reati rispetto all’operatività aziendale ed alle attività in concreto svolte, in tutte le loro declinazioni.

Alla luce di tale analisi, ove la natura dell’attività effettivamente posta in essere e la struttura dell’ente, attraverso cui tale attività è svolta, lo richiedano, questi operatori dovrebbero adottare un adeguato Modello di organizzazione e controllo, nominare un Organismo di vigilanza, predisporre ed implementare specifici ed efficaci protocolli volti a prevenire la commissione dei suddetti reati ed, in ultima analisi, finalizzati a scongiurare l’applicazione delle consistenti sanzioni (anche) a carico dell’ente medesimo qualora uno o più preposti si sia nondimeno reso responsabile di taluna delle condotte penalmente rilevanti ai sensi e per gli effetti delle norme sopra richiamate.

È infatti da evidenziare come entrambe le suddette recenti modifiche, con l’introduzione delle relative norme ai sensi e per gli effetti del D. Lgs. n. 231/2001, siano intrinsecamente legate se si pensa ai pagamenti relativi alle transazioni aventi ad oggetto la compravendita o comunque la cessione o lo scambio a titolo oneroso di opere d’arte e/o di beni latu sensu culturali. È, infatti, ad esempio, sotto gli occhi di tutti la vera e propria esplosione del mercato degli NFT, per lo più legati al mondo dell’arte, la cui moneta sottostante è la cryptocurrency Ethereum.

FOOD LAW: la nuova regolamentazione delle pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare

Clovers segnala un’importante novità normativa con importanti effetti nell’ambito della contrattualistica e delle pratiche commerciali nel settore agroalimentare.

Come forse già saprete, la recente attuazione in Italia della Direttiva UE 2019/633 ha introdotto regole stringenti alle quali devono adeguarsi le imprese che operano nella filiera agricola e alimentare a partire dal 15 dicembre 2021 . Le novità principali di questa riforma riguardano sia i contratti (in essere o da stipulare), che la disciplina della concorrenza tra le imprese operanti in un settore che riveste un’importanza chiave nella promozione dell’eccellenza italiana e che interessa prodotti che vanno dal latte alle piante, passando per il vino e il tabacco. A presidio del rispetto della nuova normativa sono anche previste sanzioni che possono arrivare sino alla soglia del 10% del fatturato del trasgressore realizzato nell’esercizio precedente all’accertamento. Troverete di seguito illustrati gli aspetti più rilevanti della nuova disciplina, suddivisi per aree tematiche di interesse. Cosa riguarda La riforma si occupa della disciplina dei contratti, delle pratiche commerciali, la prassi della vendita sottocosto e di altri importanti aspetti che regolano la filiera agro alimentare in Italia. A chi si rivolge Si tratta di una disciplina che si applica unicamente ai rapporti B2B, con esclusione, quindi, dei contratti con i consumatori finali. I destinatari sono sia i fornitori che gli acquirenti che operano del settore della filiera agro-alimentare:

  1. che si occupano di cessione di prodotti agricoli e alimentari ,
  2. nei casi in cui il fornitore sia stabilito in Italia,
  3. qualunque sia il fatturato da essi realizzato.

Novità in tema di contratti

Per quanto riguarda i contratti di cessione la norma prevede il rispetto di precisi obblighi di contenuto, di durata e di forma e stabilisce che tutti i contratti in essere vadano adeguati al più tardi entro il 15 giugno 2022.

  1. obblighi (e divieti) di contenuto
  • Per negoziare nuovi contratti o per adeguare quelli già vigenti, la regola chiave è quella della chiarezza: la normativa indica con precisione quali previsioni debbono essere necessariamente presenti nei contratti e quali, invece, sono vietate:
  • Da un punto di vista pratico devono essere sempre inserite in tutti i contratti tra fornitori e acquirenti indicazioni puntuali circa le quantità e le caratteristiche dei prodotti venduti, il prezzo (che può essere fisso o determinabile sulla base di criteri stabiliti nel contratto) la durata, le modalità di consegna e di pagamento della merce fornita .

È, invece, espressamente vietato inserire nei contratti pattuizioni volte a:

  • stabilire termini di pagamento di oltre 30 giorni per i prodotti deperibili e oltre 60 giorni per gli altri prodotti agricoli e alimentari;
  • consentire l’annullamento, da parte dell’acquirente, di ordini di prodotti deperibili con un preavviso inferiore a 30 giorni, con alcune eccezioni;
  • modificare unilateralmente le condizioni relative alla frequenza, al metodo, al luogo, ai tempi o al volume della fornitura o della consegna dei prodotti, alle norme di qualità, ai termini di pagamento o ai prezzi oppure relative alla prestazione di servizi accessori;
  • consentire la richiesta al fornitore di pagamenti che non sono connessi alla vendita dei prodotti agricoli e alimentari o di farsi carico dei costi per il deterioramento e/o la perdita di prodotti che si verificano presso i locali dell'acquirente o comunque dopo che tali prodotti sono divenuti di sua proprietà, quando tale deterioramento o perdita non siano stati causati da negligenza o colpa del fornitore;
  • imporre, direttamente o indirettamente, condizioni di vendita, di acquisto o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
  • vendere prodotti agricoli e alimentari a condizioni contrattuali eccessivamente gravose, ivi compresa la vendita a prezzi manifestamente inferiori ai costi di produzione;
  • imporre all'acquirente prodotti con date di scadenza troppo brevi;
  • imporre vincoli contrattuali per il mantenimento di un determinato assortimento di prodotti;
  • imporre all'acquirente l'inserimento di certi prodotti nell'assortimento;
  • imporre all'acquirente l’obbligo di riservare a determinati prodotti posizioni privilegiate negli scaffali o negli esercizi commerciali.
  • escludere l'applicazione di interessi di mora a danno del creditore o delle spese di recupero dei crediti;
  • prevedere l'obbligo del fornitore di non emettere la fattura prima di un certo periodo di tempo dopo la consegna dei prodotti, con alcune eccezioni;

e più in generale:

  • applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti;
  • subordinare la conclusione, l'esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle relazioni commerciali all’esecuzione di prestazioni che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non hanno alcuna connessione con l'oggetto dei contratti e delle relazioni commerciali;
  • imporre l’obbligo di fornire servizi e prestazioni accessorie, senza alcuna connessione oggettiva con i prodotti ceduti in base al contratto;
  • imporre un trasferimento ingiustificato e sproporzionato del rischio economico da una parte alla sua controparte.

È consentito, a patto che sia scritto con chiarezza e che sia stato concordato tra i contraenti (si veda il par. che segue sulla c.d. “grey list”), inserire clausole che prevedano che:

  • l'acquirente restituisca al fornitore prodotti agricoli e alimentari rimasti invenduti, senza corrispondere alcun pagamento per tali prodotti invenduti e/o per il loro smaltimento;
  • al fornitore venga richiesto un pagamento come condizione per l'immagazzinamento, l'esposizione, l'inserimento in listino o la messa in commercio dei suoi prodotti;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico del costo degli sconti sui prodotti agricoli e alimentari venduti dall'acquirente come parte di una promozione, con alcune eccezioni;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi della pubblicità dei prodotti effettuata dall'acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi per il marketing dei prodotti effettuato dall’acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico dei costi del personale incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti del fornitore.

Durata

Un’indicazione importante riguarda poi la durata dei contratti, che dovrà essere di almeno 12 mesi, salvo comprovate diverse esigenze derivanti, e.g., dalla stagionalità dei prodotti oggetto di fornitura, specificamente concordate dalle parti o per il tramite di associazioni di categoria; al di fuori di questa deroga, contratti stipulati con una durata più breve, saranno considerati di durata pari a 12 mesi.

Forma scritta

Sempre allo scopo di ridurre il più possibile il margine di incertezza tra fornitori e acquirenti, la nuova disciplina impone la forma scritta dei contratti.

NB: le buone pratiche commerciali

Tra le novità più di rilievo, la norma prevede espressamente la possibilità per gli operatori della filiera di utilizzare nelle loro attività messaggi pubblicitari recanti la seguente dicitura: “Prodotto conforme alle buone pratiche commerciali nella filiera agricola e alimentare”, quando siano rispettati non solo i criteri di cui al punto 1 in tema di contenuto dei contratti, ma sia dimostrabile che le parti agiscano secondo correttezza, trasparenza e buona fede sul mercato di riferimento. L’utilizzo di questo claim è sempre soggetto a verifica da parte dell’ICQRF.

Le condotte commerciali vietate e in “Grey list”

La nuova disciplina si occupa di elencare nel dettaglio una serie di condotte commerciali vietate che devono essere sempre evitate da tutte le imprese operanti nel settore agro alimentare a prescindere dall’esistenza o meno di rapporti contrattuali. Si tratta di c.d. “pratiche commerciali sleali” che vengono distinte, in base alla loro gravità tra

  1. pratiche commerciali comunque vietate (cd. “black list”) e
  2. pratiche che sarebbero vietate salvo che siano state precedentemente concordate tra le parti nel contratto di cessione o in un altro accordo successivo. (cd. “grey list”)

La c.d. “black list”

Tra le pratiche vietate vi sono tutte le condotte già esaminate con riferimento ai contenuti vietati nei contratti tra fornitori e acquirenti, ma ve ne sono anche altre, che prescindono da un rapporto di fornitura in essere tra le parti, tra cui:

  • l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione illecita, da parte dell’acquirente, di segreti commerciali del fornitore;
  • la minaccia di mettere in atto o la stessa messa in atto di ritorsioni commerciali nei confronti del fornitore quando quest'ultimo esercita i diritti contrattuali e legali di cui gode;
  • la vendita di prodotti agricoli e alimentari attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso;
  • l'omissione di almeno una delle condizioni richieste dall'articolo 168, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 1308/2013 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli;
  • l'imposizione, diretta o indiretta, di condizioni di vendita, di acquisto o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; e, più in generale:
  • l'adozione di ogni ulteriore condotta commerciale che risulti sleale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento.

La c.d. “grey list”

Come già visto sopra, invece, è possibile sfuggire a censure di slealtà concorrenziale per queste previsioni, se vengono inserite in modo chiaro e determinato in contratto:

  • l'acquirente restituisca al fornitore prodotti agricoli e alimentari rimasti invenduti, senza corrispondere alcun pagamento per tali prodotti invenduti e/o per il loro smaltimento;
  • al fornitore venga richiesto un pagamento come condizione per l'immagazzinamento, l'esposizione, l'inserimento in listino o la messa in commercio dei suoi prodotti;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico del costo degli sconti sui prodotti agricoli e alimentari venduti dall'acquirente come parte di una promozione, con alcune eccezioni;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi della pubblicità dei prodotti effettuata dall'acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi per il marketing dei prodotti effettuato dall’acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico dei costi del personale incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti del fornitore.

Chi controlla?

Le Autorità preposte alla vigilanza sull’attuazione della nuova disciplina sono il neo-istituito l'Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), che può agire sia d’ufficio che a seguito di denuncia (anche anonima) e l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), fatta salva la possibilità per le parti interessate di ricorrere a procedure di mediazione o a meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie.

Riassumendo

La nuova disciplina, efficace sin da subito, si occupa sia dei contratti che dei comportamenti delle imprese attive in Italia nella filiera agroalimentare e stabilisce precisi diritti ed obblighi tra le parti, assoggettando gli operatori di mercato al potere ispettivo e sanzionatorio di apposite autorità pubbliche.

Le previsioni normative non rappresentano semplicemente l’ennesima novità per il settore ma sono anche l’occasione per ripensare i rapporti tra gli operatori di mercato con una prospettiva volta a premiare la trasparenza, la continuità e la valorizzazione della filiera.

È nel pieno rispetto di questa finalità che noi di Clovers siamo a Vostra disposizione per approfondire questi aspetti anche in tema di condivisione delle strategie di adeguamento alla nuova normativa a fronte di un possibile mutamento di rapporti consolidati tra i vostri acquirenti e fornitori. Lo studio è anche a disposizione per programmare, ove richiesta, una sessione di aggiornamento e formazione sul tema.

Il successo commerciale di un articolo di moda non comporta automaticamente il riconoscimento della protezione del diritto d'autore (in assenza di prove di creatività e valore artistico)

La tutela legale delle creazioni degli stilisti conta diversi mezzi: dalla concorrenza sleale alla tutela del design, ai marchi di forma, alla tutela offerta dalla legge sul diritto d'autore (L. n. 633/1941): questi strumenti offrono diversi tipi di protezione e possono essere utilizzati solo se vengono soddisfatti specifici requisiti, che devono sempre essere provati.

È comune in questo campo vedere i marchi di moda che cercano di "vestire" i loro prodotti con una varietà di titoli di proprietà intellettuale, registrandoli, per esempio, come marchi di forma o come disegno industriale, al fine di aumentare il livello di protezione contro possibili imitazioni.

Tuttavia, sebbene la protezione mediante registrazione dei diritti di proprietà intellettuale nel settore della moda sia particolarmente diffusa, la natura temporanea dei diritti conferiti dalla registrazione può costituire un ostacolo alla tutelabilità di capi o accessori quando il loro successo commerciale è particolarmente duraturo: in questi casi, per poter accedere ad una protezione estesa nel tempo e che vada oltre le formalità richieste per la registrazione, è necessario dimostrare non solo il particolare gradimento del pubblico, ma anche la creatività e il valore artistico del prodotto per puntare alla tutela del diritto d'autore.

Un caso emblematico della possibile coesistenza di più livelli di protezione per gli articoli di moda e delle difficoltà legate alla prova della creatività e del valore artistico di un prodotto che aspira ad essere considerato copyright è quello recentemente trattato dal Tribunale di Milano.

Il caso riguardava la commercializzazione di borse che imitavano la famosa borsa "Le Pliage" di Longchamp, protetta da due registrazioni di marchio tridimensionale dell'Unione Europea che ne rivendicava la peculiare forma trapezoidale, e caratterizzata anche dalla combinazione di ulteriori elementi originali, quali la patta arrotondata, i manici tubolari e il contrasto di colore e materiali tra gli elementi in nylon e quelli in pelle.

L'attore sosteneva che il modello di borsa "Le Pliage" è stato creato nel 1993 ed è stato ancora commercializzato in tutto il mondo attraverso più di 1.500 punti vendita e anche online e chiedeva la tutela contro le imitazioni, invocando non solo la protezione prevista sulla base di registrazioni di marchi tridimensionali (ex artt. 2 e 20 C.P.I. e art.9 Reg. UE n. 2017/1001), ma anche la violazione dei diritti dell'autore e dei principi a tutela della concorrenza leale sul mercato (art. 2598 c.c.).

Il Tribunale ha innanzitutto riconosciuto la violazione dei marchi europei tridimensionali dell'attrice nella misura in cui è stata accertata non solo la loro capacità distintiva dovuta alle modalità di utilizzo e presentazione del marchio stesso e alle informazioni e suggestioni veicolate attraverso la pubblicità e la percezione che la forma determina sul pubblico dei consumatori, ma anche l'assunzione, da parte delle borse imitative, di tutti gli elementi distintivi del modello "Le Pliage".

Per quanto riguarda l'invocata tutela del diritto d'autore, facendo riferimento alla propria giurisprudenza sul punto, la sentenza ha stabilito che non era possibile individuare nel caso di specie l'effettiva esistenza del carattere artistico necessario affinché la forma della borsa potesse godere di tale tutela.

I giudici hanno rilevato che, a parte l'innegabile successo commerciale ottenuto sul mercato, l'attore non aveva allegato gli elementi che avrebbero dovuto confermare la presenza di un valore artistico nella creazione dell'aspetto esterno del modello di borsa in questione.

In altre parole, non vi era alcuna prova dei requisiti di creatività e valore artistico che presuppongono l'applicabilità dell'art. 2.10 della legge sul diritto d'autore.

Come è noto, il valore artistico può essere desunto da una serie di parametri oggettivi, quali il riconoscimento da parte di ambienti culturali ed istituzionali dell'esistenza di qualità estetiche ed artistiche, l'esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, l'assegnazione di premi, l'acquisizione di un valore di mercato così elevato da trascendere quello legato alla sola funzionalità o la creazione da parte di un artista noto e, in assenza di prova, non è possibile accedere alla tutela prevista dalla legge sul diritto d'autore.

Cookies: il Garante Privacy Francese (la “CNIL”) sanziona GOOGLE per un totale di 150 milioni di euro e FACEBOOK per 60 milioni di euro per non aver rispettato la legislazione privacy francese.

Il 6 gennaio scorso, a seguito di indagini, la CNIL ha constatato che i siti facebook.com, google.fr e youtube.com non consentono agli utenti di rifiutare i cookies con la stessa semplicità con cui vengono accettati. La CNIL ha così multato FACEBOOK per 60 milioni di euro e GOOGLE per 150 milioni di euro e ha ordinato loro di conformarsi entro tre mesi. L’autorità francese ha notato, in particolare, che i siti facebook.com, google.fr e youtube.com offrono un pulsante che permette all'utente di accettare immediatamente i cookies, mentre non forniscono una soluzione equivalente (pulsante o altro) che permetta all'utente di rifiutare, in modo altrettanto semplice l’utilizzo dei medesimi cookies. I siti web al vaglio della CNIL prevedevano infatti l’esecuzione di diversi click per rifiutare tutti i cookies e un solo click per accettarli, andando così a limitare la libertà del consenso, prevista come elemento fondamentale dall’Art. 82 della legge francese sulla privacy, oltre che dal GDPR. Oltre al pagamento delle suddette sanzioni, Google e Facebook dovranno adeguarsi alle prescrizioni della CNIL entro 3 mesi, fornendo agli utenti una modalità di rifiuto dei cookies che sia altrettanto semplice rispetto a quella prevista per accettarli. In mancanza, le imprese dovranno pagare una sanzione di 100.000 euro per ogni giorno di ritardo. Queste due decisioni rientrano nell’ambito della strategia di conformità globale avviata dalla CNIL negli ultimi due anni nei confronti di operatori francesi e stranieri, che pubblicano siti web con molte visite e che pongono in essere pratiche contrarie alla normativa in materia di cookies. Dal 31 marzo 2021, quando è scaduto il termine fissato per i siti web e le applicazioni mobili per conformarsi alle nuove regole sui cookie, la CNIL ha adottato quasi 100 misure correttive (ordini e sanzioni) relative al mancato rispetto della legislazione sui cookie. Sul panorama italiano in materia di cookies, si segnalano le Linee Guida Cookies pubblicate dal Garante Privacy ed entrate in vigore lo scorso 10 gennaio 2022, i cui dettagli sono forniti, sul nostro Blog.

Food Retail

L’andamento del settore Food Retail nel 2021 avverte segnali positivi anche se ovviamente risente ancora del negativo riverbero socio-economico della pandemia Covid-19. Nel corso del 2020 l’emergenza sanitaria ha colpito duramente tutto il settore della ristorazione che a causa delle prolungate e intermittenti fasi di lock down ha vissuto momenti drammatici. Sotto l’aspetto dell’attività legale di assistenza e consulenza al settore Food Retail il 2020 è stato segnato da una prolungata attività negoziale rivolta alla ricerca dell’equilibrio tra le ragioni dei locatori e le richieste di riqualificazione del canone da parte delle aziende. Il risultato di questa attività è stato mediamente positivo, in termini di raggiungimento di accordi equilibrati di revisione del canone, ma nel complesso l’impatto del fattore pandemico è stato molto severo in termini di calo dei fatturati per tutto il comparto, che ha visto anche il susseguirsi di numerose chiusure di attività che sicuramente hanno colpito per lo più, ma non solo, quelle aziende che avevano pregresse problematiche di capitalizzazione e di instabilità finanziaria già in epoca pre-covid. Gli operatori del settore hanno, peraltro, riscontrato una scarsa efficacia e proporzionalità delle misure economiche di sostegno disposte dal Governo. Nel 2021, soprattutto nel secondo semestre, pur nella permanenza di una diffusa incertezza sugli scenari economici a breve e medio termine e in concomitanza con un inizio di ripresa dei flussi di cassa delle aziende, anche se non certamente pari ai livelli pre-covid, si sono avvertiti segnali incoraggianti anche per quanto riguarda la ripresa dei piani di sviluppo. L’attività di negoziazione si è così maggiormente rivolta alle trattative per le nuove aperture, che hanno visto un cauto risveglio delle iniziative di acquisizione di locali commerciali e di altri posizionamenti in ambito Retail. D’altra parte anche le evidenti e in certi casi favorevoli opportunità offerte dal mercato spesso vengono affrontate con una certa prudenza, determinata dalla consapevolezza che il periodo di emergenza è tutt’altro che terminato. Quanto al target del posizionamento si segnala una netta predisposizione alla ricerca di location dotate di ampi dehors esterni, in ragione delle mutate abitudini della clientela che predilige senz’altro un’offerta con caratteristiche di maggiore vivibilità outdoor. Un possibile freno allo sviluppo è invece costituito dal fenomeno della ormai cronica indisponibilità di personale qualificato.

SUPER GREEN PASS: cosa accade se la zona in cui abito cambia colore?

Il Super Green Pass è diventato obbligatorio dal 6 dicembre 2021, ma di cosa si tratta? Il Super Green Pass, di cui si è sentito molto parlare (e discutere) consiste nella certificazione verde Covid-19 ottenuta solamente con la vaccinazione o con la guarigione dal Virus SARS-COV-2, restando esclusa la certificazione ottenuta a seguito dell’esito negativo del tampone antigenico (il c.d. tempone rapido). Quanto alla validità del Super Green Pass la stessa è già mutata più di una volta: dal DL di novembre (n. 172/2021) al DL di dicembre (n. 221/2021) si è passati da una durata da 12 a 9 mesi fino a diminuire ulteriormente. Infatti, dal 1° febbraio 2022 la durata del Super Green Pass vaccinale viene ridotta dal 9 a 6 mesi. Ciò che appare opportuno segnalare, restando in attesa di tutte le modifiche che si avvicenderanno fino al termine dello stato di emergenza – fissato per il 31 marzo 2022 – e anche post fine stato d’emergenza, è cosa cambia all’eventuale cambiare delle zone, ormai note, bianca, gialla, arancione e rossa.

• ZONA BIANCA

Le attività sono tutte aperte, non vi sono limitazioni negli spostamenti. Serve il Green Pass base per:

  1. prendere i mezzi pubblici, il treno e l’aereo;
  2. andare in palestra e in piscina;
  3. andare in albergo e nei ristoranti annessi;
  4. usufruire di impianti sciistici.

Serve, invece, il Super Green Pass per:

  1. andare al ristorante al chiuso;
  2. andare al cinema e al teatro;
  3. andare allo stadio;
  4. partecipare a feste e cerimonie pubbliche.

• ZONA GIALLA

  1. Obbligo di mascherina all’aperto.
  2. Nei bar e ristoranti al chiuso, può consumare solo chi è munito di Super Green Pass.

• ZONA ARANCIONE

  1. Non si può uscire dal comune di residenza, se non per motivi di lavoro, necessità ed urgenza.
  2. Tutte le attività rimangono aperte ma molte saranno accessibili soltanto con Super Green Pass.

Col Super Green Pass:

  1. ci si può muovere liberamente, anche fuori dalla propria regione;
  2. si può andare al bar e ristorante, in palestra e nelle piscine al chiuso, al cinema e al teatro;
  3. si può entrare alle fiere e ai convegni, ai parchi di divertimento, negli impianti sciistici e alle terme.

• ZONA ROSSA

  1. Non si può uscire dal comune di residenza se non per motivi di lavoro, necessità, urgenza.
  2. I ristoranti e i bar sono chiusi, ma è consentito l’asporto e la consegna a domicilio.
  3. I negozi chiusi ad esclusione di supermercati, alimentari, edicole, tabaccherie, farmacie e quelli con codice Ateco consentito.
  4. I divieti si estendono anche a chi possiede il Super Green Pass.

Infine, le ultime novità in punto di Super Green Pass sono le seguenti:

  • dal 10 gennaio 2022: obbligo di Super Green Pass per: tutti i mezzi di trasporto pubblici; servizi di ristorazione all’aperto; piscine al chiuso e all’aperto; palestre; centri termali e parchi divertimento; musei; alberghi e strutture ricettive; feste conseguenti a cerimonie civili o religiose (come battesimi o matrimoni); sagre e fiere; congressi; impianti sciistici; sport di squadra anche all'aperto (e.g. calcetto); sale gioco, sale bingo e casinò;
  • dal 15 febbraio 2022: obbligo di Super Green Pass per tutti i lavoratori (pubblici e privati) e i liberi professionisti di almeno 50 anni. Chi non è ancora vaccinato dovrà effettuare la prima dose del vaccino entro il 31 gennaio 2022 per ottenere un Super Green Pass valido a partire dal 15 febbraio 2022.

Si rinvia alla lettura di una utile ed esplicativa tabella della quale, per comodità, si allega di seguito il link:

https://www.governo.it/sites/governo.it/files/documenti/documenti/Notizie-allegati/tabella_attivita_consentite.pdf

Clovers Alert! Il tuo sito web è conforme alle novità normative che entreranno in vigore dal 10 gennaio 2022?

Di seguito analizziamo le nuove linee guida sui cookies del Garante Privacy

  1. Le Linee Guida Cookies e altri strumenti di tracciamento

Con Provvedimento n. 231 del 10 giugno 2021, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 163 del 9 luglio 2021 il Garante privacy ha fornito le proprie linee guida per a) indicare ai gestori di siti web le regole da applicare per l’utilizzo dei cookies e degli altri strumenti di tracciamento e b) per specificare le corrette modalità di fornitura dell’informativa e per l’acquisizione del consenso online degli interessati (le “Linee guida”). Le Linee guida si propongono quindi di integrare le precedenti indicazioni del Garante Privacy (Provvedimento n. 229 del 2014) precisando che la manifestazione di volontà dell’interessato sia “inequivocabile” oltre che libera e informata e richiedendo che la protezione dei dati sia assicurata sin dalla progettazione e attraverso impostazioni predefinite (privacy by default e by design).

  1. Cosa bisogna fare dal 10 gennaio?

Sintetizziamo qui di seguito gli obblighi stabiliti dalle Linee guida, riferiti in modo particolare alle modalità di acquisizione del consenso e alle caratteristiche dell’informativa Cookies

a) L’acquisizione del consenso

In primo luogo, il Garante ribadisce che non sono ammesse, come forme di acquisizione del consenso, le pratiche:

  • del c.d. “scrolling” (ossia, lo spostamento in basso del cursore), che possa essere qualificato come azione positiva idonea a manifestare in maniera inequivoca la volontà di prestare un consenso al trattamento, salvo eccezioni da vedere caso per caso;
  • del c.d. “cookie wall”, ossia un meccanismo vincolante (c.d. take it or leave it) in cui l’utente sia obbligato, per accedere al sito, ad esprimere il proprio consenso alla ricezione di cookies o di altri strumenti di tracciamento, salvo eccezioni da valutare caso per caso.

Da un punto di vista operativo, il Garante richiede le seguenti caratteristiche per acquisire validamente il consenso del navigatore:

  • al momento del primo accesso di un utente al sito web, nessun cookie o altro strumento diverso da quelli tecnici sarà posizionato all’interno del dispositivo e non sarà utilizzata alcuna tecnica attiva o passiva di tracciamento;
  • al primo accesso alla pagina web, apparirà un’area o un banner di dimensioni adeguate e tali da non indurre l’utente ad effettuare scelte indesiderate;
  • tale banner dovrà consentire all’utente di esprimere il proprio consenso, attraverso un’azione positiva;
  • occorre quindi consentire all’utente di mantenere le impostazioni di default e di proseguire la navigazione senza prestare alcun consenso, cliccando sul comando di chiusura del banner contraddistinto da una “X” posizionata in alto e a destra all’interno del banner;
  • occorre inserire (oltre al link all’informativa completa) una informativa minima relativa all’utilizzo dei cookies tecnici e - previo consenso, al fine di inviare messaggi pubblicitari ovvero di fornire il servizio in modo personalizzato - di cookies di profilazione o di altri strumenti di tracciamento;
  • sarà inoltre presente un comando attraverso il quale sia possibile esprimere il proprio consenso accettando il posizionamento di tutti i cookie o l’impiego di eventuali altri strumenti di tracciamento e il link ad una ulteriore area dedicata nella quale sia possibile selezionare le funzionalità, i soggetti cd. terze parti ed i cookie al cui utilizzo l’utente scelga di acconsentire

Il Garante precisa inoltre che il banner non dovrà essere ripresentato ad ogni nuovo accesso e che la scelta dell’utente dovrà essere debitamente registrata e non più sollecitata per almeno 6 mesi, salvo modifiche rilevanti nelle condizioni di trattamento.

b) L’informativa

L’informativa Cookies dovrà indicare i soggetti destinatari dei dati personali raccolti e i tempi di conservazione delle informazioni e potrà essere resa anche su più canali e con diverse modalità (ad esempio, con pop up, video, interazioni vocali). Se si utilizzano solo cookies tecnici, l’informativa Cookies potrà essere inclusa nell’informativa generale. Il Garante raccomanda poi che i cookie analytics, usati per valutare l’efficacia di un servizio, siano utilizzati solo a scopi statistici.


Quello sopra riportato è il quadro generale delle Linee guida del Garante privacy che – con adeguato supporto legale – dovrà essere implementato su ogni sito web.

Sulla prova dell’uso del marchio nei procedimenti di nullità e opposizione

Laura Bussoli - Senior Counsel

Non a tutti è noto che una volta depositato e registrato, il marchio deve costituire oggetto d’uso effettivo da parte del suo titolare: le norme – sia nazionali che comunitarie – prevedono infatti un primo periodo di tolleranza di cinque anni dalla registrazione, scaduto il quale il titolare potrebbe essere chiamato a dare prova di un uso effettivo del suo marchio.

La prova dell’uso può essere richiesta sia nell’ambito di un procedimento di opposizione da parte del richiedente il marchio opposto all’opponente, con la conseguenza che in assenza di prove utili, l’opposizione è di diritto respinta.

Similmente la prova dell’uso del marchio potrebbe essere chiesta nell’ambito di un procedimento di decadenza per non uso previsto a livello comunitario dagli Artt. 18 e 58 Regolamento sul marchio dell’Unione europea, UE 2017/1001. Anche in questo caso le conseguenze sono tutt’altro che banali per il titolare del marchio, dato che qualora il giudice amministrativo reputasse le prove non sufficienti, il marchio verrebbe dichiarato nullo a fare data dalla domanda di decadenza e quindi cancellato dal registro.

In sostanza quindi, l’uso del marchio è fondamentale anche in tutti i casi in cui il marchio viene registrato: non è sufficiente avere registrato il marchio in una serie di classi merceologiche al fine di assicurarsi una protezione più ampia possibile, se poi a tale registrazione non corrisponde un uso genuino dello stesso nei termini di legge.

Particolarmente importante quindi sarà da parte del titolare la raccolta di prove d’uso nel tempo, specie man mano che si avvicina la scadenza del quinquennio di tolleranza.

Di grande importanza è anche sapere quali sono le prove d’uso rilevanti per il giudice amministrativo. Tra le principali prove d’uso ci sono senz’altro le fatture di vendita.

Come più volte ribadito dai giudici, tali fatture devono mostrare volumi significativi e frequenti di vendite durante il periodo rilevante (quinquennio antecedente alla domanda di nullità o, nell’ambito di un procedimento di opposizione, dal momento della pubblicazione).

Si noti che le offerte di vendita dei prodotti recanti il marchio impugnato sui siti web non sono sufficienti di per sé a dimostrare un uso effettivo, tuttalpiù possono assumere rilievo unitamente ad altri elementi quali per esempio, la produzione di documenti giustificativi, imballaggi, etichette, listini prezzi, cataloghi, fatture, fotografie, annunci sui giornali.

Sul punto si espresso anche di recente il Tribunale UE nella causa T‑1/20 del 13/10/2021 rigettando il ricorso della società Mi Indutries Inc., produttrice di cibi organici per animali domestici, confermando la decisione della Commissione dei Ricorso presso l’EUIPO che aveva ritenuto alcuni estratti del sito Internet «Amazon.co.uk» ove i prodotti recanti il marchio contestato erano messi in vendita non sufficienti a dimostrare un uso effettivo del marchio: gli stessi dimostravano semplicemente che i prodotti in questione erano stati messi in vendita, senza tuttavia dimostrare che gli stessi erano effettivamente stati venduti e senza fornire alcuna informazioni sul volume di eventuali vendite.

Secondo la giurisprudenza, l'uso effettivo di un marchio non può essere dimostrato da probabilità o presunzioni, ma deve fondarsi su elementi concreti e oggettivi che dimostrino l'uso effettivo e sufficiente del marchio nel mercato interessato.

Secondo i regolamenti di esecuzione, inoltre la prova dell'uso deve riguardare il luogo, la durata, l'estensione e la natura dell'uso che è stato fatto del marchio impugnato.

È fondamentale poi che le prove riguardino il quinquennio rilevante: ulteriori prove fuori da tale periodo saranno considerate solo secondariamente.

Inoltre, la condizione relativa all'uso effettivo del marchio richiede che esso, in quanto protetto nel territorio di riferimento, sia utilizzato pubblicamente ed esternamente. Sotto questo profilo il Tribunale ha precisato che sono rilevanti non solo le vendite ai consumatori finali, ma anche ai clienti industriali e agli utilizzatori professionali (vendite B2B).

Infine il Tribunale ha precisato che anche se non è necessario per il titolare al fine di sottrarsi alle sanzioni, dimostrare un uso costante e di portata rilevante per tutto il quinquennio di riferimento, l’assenza palese di prove per una parte importante del periodo fa sì che l’uso sia considerato non sufficiente.

Finanziamenti soci: rischi connessi ed istruzioni per l'uso

Alcuni dei profili giuridici e degli aspetti di carattere pratico maggiormente rilevanti legati ai finanziamenti effettuati dai soci a favore delle società da essi partecipate, alla luce del diffusissimo utilizzo di questo strumento, hanno spesso comportato criticità non adeguatamente valutate ex ante nonché l’emersione di tematiche controverse. Ciò malgrado il legislatore e la giurisprudenza abbiano tentato nel corso degli anni di fornire una parziale regolamentazione ed un’interpretazione della materia il più possibile lineare ed aderente alla pratica.

L’art. 2467 cod. civ. - che prevede l’espressa postergazione di tali crediti derivanti da finanziamento rispetto al rimborso da parte della società di quelli vantati a diverso titolo dagli altri creditori - affronta, infatti, il problema della loro qualificazione con la consapevolezza che, malgrado gli stessi in molti casi si presentino, nella forma e nelle intenzioni del socio mutuante, come erogazioni di capitale di credito (soggetti pertanto a teorico obbligo di restituzione tout court da parte della società mutuataria), nella sostanza dovranno tuttavia essere più correttamente inquadrati come conferimenti di capitale di rischio perché effettuati in momenti della vita sociale in cui sarebbe stato ragionevole attendersi il conferimento, appunto, di capitale di rischio.

La medesima norma non si è però dimostrata sufficientemente precisa nell’individuare in quale preciso momento debba verificarsi la sussistenza delle condizioni di “eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto” o di “situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento” ai fini dell’operatività del meccanismo di postergazione ed in questa zona grigia è quindi intervenuta la giurisprudenza chiarendo, in sintesi, che “la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento ed a quello della richiesta di rimborso” nonché “sino alla pronuncia (giudiziale, n.d.r.), trattandosi di condizione di inesigibilità del credito” (in questo senso Cass. civ. 12944/2019 ed, inter alia, Tribunale di Milano 9 luglio 2021, Tribunale di Milano 21 ottobre 2020, Tribunale di Roma 6 febbraio 2017 e Tribunale di Milano 13 giugno 2016).

La norma in commento, le interpretazioni giurisprudenziali nel tempo fornite e la particolarità dell’istituto sollevano quindi criticità concrete da tenere in debita considerazione nel momento in

cui si valuta se effettuare o meno il finanziamento e quali siano i pro ed i contra di questo strumento per il socio erogante.

La tematica ed i rischi connessi dovranno quindi essere attentamente ponderate dal socio comprendendo che, al fine di evitare o, quantomeno, mitigare il rischio di postergazione rispetto agli altri creditori sociali, non rileva unicamente il momento in cui è stato erogato il finanziamento venendo viceversa di fatto ad avere rilevanza ogni possibile successivo mutamento della situazione patrimoniale e finanziaria della società finanziata in relazione alla restituzione puntuale o meno del rimborso, fino alla possibile perdita integrale del capitale conferito nel caso in cui la società beneficiaria non dovesse risollevarsi dalla fase di sopravvenuta difficoltà finanziaria.

Un ulteriore tema da considerare consiste nella necessità di pattuire con la società beneficiaria una chiara identificazione delle modalità e dei termini di restituzione del finanziamento erogato attraverso la sottoscrizione di un accordo dettagliato.

Dal punto di vista operativo, quando si esegue un finanziamento a favore di una società partecipata, è consigliabile quindi procedere con le cautele necessarie, in particolar modo se il socio conferente non è autorizzato a disporre in via autonoma la restituzione del finanziamento in qualità di amministratore e legale rappresentante della società beneficiaria.

Tali cautele dovrebbero consistere:

  • nella adeguata preventiva comprensione dei presupposti economico-giuridici di applicazione della postergazione, qui sinteticamente trattati;

  • nella predisposizione di appositi contratti di finanziamento tra il socio e la società dove siano previsti espressamente l’eventuale tasso di interesse applicato (nel caso di prestiti fruttiferi) e soprattutto termini, condizioni, modalità e tempistiche di restituzione del finanziamento in capo al socio mutuante.

Non è in altre parole sufficiente effettuare un semplice bonifico bancario a favore della società (come molto spesso accade nella prassi), anche se con una causale dettagliata, così come si rivela estremamente rischioso non pattuire uno specifico termine di restituzione. Infatti, in caso di mancata previsione di tale termine e di mancato accordo con la società beneficiaria, il socio conferente, in caso di contestazione della società, dovrà avviare un autonomo giudizio civile al fine di richiedere la fissazione giudiziale di un termine per la restituzione del finanziamento ai sensi e per gli effetti dell’art. 1817 cod. civ. (norma spesso non adeguatamente tenuta in considerazione in questi contesti)

Concorrenza sleale – pubblicazione sul proprio sito internet di liste clienti altrui

Gaia Bellomo - Senior AssociateMaria Sole Torno - Stagista

Gaia Bellomo - Senior Associate

Maria Sole Torno - Stagista

I nomi di clienti prestigiosi rappresentano un vanto per l’impresa?

La rinomanza presso il pubblico e la capacità distintiva dei propri marchi rappresentano fattori di indubbia rilevanza per le imprese e sono asset concorrenziali che possono essere messi a rischio da comportamenti scorretti sul mercato. Per tutelare il corretto svolgersi delle dinamiche di mercato il codice civile, tramite gli articoli riservati alla regolamentazione della concorrenza, regolamenta il comportamento delle imprese a livello individuale e tutela le imprese, da comportamenti scorretti.

La Corte di Cassazione ha recentemente preso posizione sul tema della concorrenza sleale, esprimendosi in particolare sul divieto di appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente, sancito dall’art. 2958, comma 1, n. 2 c.c..

Il caso preso in esame dalla Corte, ha visto contrapporsi l’agenzia pubblicitaria 055 Communication S.r.l. e la Senza Filtro S.n.c., alla quale veniva contestata la pubblicazione sul proprio sito internet aziendale dei nomi di numerosi clienti che erano, invece, clienti di 055 Communication.

Alla Corte di Cassazione veniva chiesto di pronunciarsi sulla questione se i nomi dei clienti di un’impresa fossero da considerarsi un pregio della stessa. A tale riguardo si era precedentemente espressa la Corte d’appello di Firenze che aveva respinto la tesi secondo cui i nomi dei clienti configurano un “pregio” aziendale, ritenendoli invece meri elementi storici del livello imprenditoriale raggiunto.

A seguito di tale decisione, 055 Communication s.r.l. aveva fatto ricorso al giudice di legittimità per violazione o falsa applicazione dell’art. 2598, comma 1, n.2, c.c., in quanto sosteneva che la condotta di un imprenditore, il quale indichi, contrariamente al vero, sul sito internet aziendale come propri i clienti che sono di un altro imprenditore, consistesse in un atto di concorrenza sleale contrario alla correttezza professionale. Inoltre, secondo la ricorrente, sarebbe stato violato anche l’art. 2598, comma 1, n. 3, c.c., poichè il comportamento della resistente avrebbe integrato anche la violazione dei principi della correttezza professionale, in quanto indice dell’approfittamento del lavoro altrui.

Nel giudizio di legittimità, il Collegio ha reputato opportuna la trattazione congiunta dei motivi, che pur invocando differenti fattispecie, miravano entrambi all’affermazione del principio di diritto secondo cui la condotta posta in essere dalla Senza Filtro s.n.c. integrasse la fattispecie di cui all’art. 2598 c.c..

La Corte aveva già affrontato la questione evidenziando nell’ordinanza n. 25607 del 2018 che la condotta tipica di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui ricorre quanto “un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od all’impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità, indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.”

Nell’ordinanza in esame, il Collegio ha precisato che l’imprenditore concorrente si appropria di pregi di un’altra impresa, quando opera, in una comunicazione destinata a terzi, un’auto-attribuzione di qualità, peculiarità o caratteristiche riconosciute ad altrui impresa. L’avere un imprenditore vantato un carnet di clienti con i quali non aveva in passato intrattenuto rapporti professionali, che erano invece in essere con un diverso imprenditore, lasciando però intendere di avere curato per essi le campagne pubblicitarie, integra, secondo la Cassazione, la fattispecie della norma predetta sotto il profilo dell’appropriazione di qualità altrui.

Alla stregua di tali considerazioni, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, alla luce del principio secondo cui “la condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’art. 2598, comma 1, n. 2 c.c., è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l’attitudine di far indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per il c.d. agganciamento, quale atto illecito di mero pericolo: tale situazione si verifica allorchè un’agenzia pubblicitaria, con la quale pur abbia iniziato a collaborare un soggetto che aveva realizzato campagne pubblicitarie per un’altra impresa, vanti sul proprio sito internet il carnet di clienti di quest’ultima, lasciando intendere di aver curato essa stessa le precedenti campagne pubblicitarie”.

Cassazione Civile, ordinanza 19 maggio 2021

Un pay-off (o slogan) è registrabile come marchio?

Molto spesso ci viene chiesto di depositare come marchio un determinato slogan (pay-off) e la risposta spesso non è così scontata.

Quando si parla di pay-off in quest’ambito si pensa subito al noto JUST DO IT di Nike – che conta oltre cento registrazioni nel mondo - o all’altrettanto noto “I’m lovin it” di Mc Donald – anch’esso depositato e registrato dalla multinazionale americana in tutto il mondo.

Non sempre però il pay-off è registrabile come marchio, anche se in realtà, sono possibili altre forme di tutela, alternative e diverse dalla registrazione.

Recentemente, per esempio il Tribunale dell’UE con sentenza del 30 giugno 2021 ha rigettato in appello la domanda di registrazione del marchio figurativo

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da parte di una società italiana produttrice di prodotti da bagno, in particolare per “cassette di scarico per WC; tazze da gabinetto [WC]; impianti di distribuzione di acqua”.

Prima di questa, anche altre decisioni a livello europeo, e non solo, avevano negato la registrabilità di alcuni slogan rilevandone l’assenza di capacità distintiva: fra queste, la sentenza del Tribunale UE 30/04/2015 (cause riunite T-707/13 e T-709/13) sul marchio denominativo “BE HAPPY” per prodotti di cartoleria, oggettistica (tazze e prodotti da cucina) e giocattoli.

Nonostante il carattere fantasioso ed originale del segno, i giudici comunitari hanno negato che quest’ultimo fosse atto a svolgere la funzione tipica e principale del marchio, vale a dire quella di indicare la fonte imprenditoriale del prodotto o servizio al quale si riferisce.

Similmente nella sentenza del 9 marzo 2017, in Puma/EUIPO, T-104/16, il Tribunale aveva negato la registrabilità del segno Forever Faster per calzature e articoli sportivi ritenendo che il marchio sarebbe stato percepito dal pubblico “come una semplice formula elogiativa o un'informazione sulle qualità desiderate e sullo scopo dei prodotti in questione”.

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Diversamente, tuttavia, si riscontrano altri precedenti che invece hanno approvato la registrazione di pay-off apparentemente non molto dissimili dagli altri appena visti. Così, la Sentenza della Corte di Giustizia UE del 21.1.2010 resa nel giudizio C-398/08 P (Audi AG) ha considerato registrabile come marchio figurativo il pay-off di Audi “vorsprung durch technik” [“Avanti grazie alla tecnologia”]

In questo caso secondo il Tribunale “anche supponendo che lo slogan «Vorsprung durch Technik» veicoli un messaggio obiettivo, secondo il quale la superiorità tecnologica permette la fabbricazione e la fornitura di prodotti e servizi migliori, tale circostanza non consente di concludere che il marchio richiesto sia del tutto privo di carattere distintivo intrinseco”. Sempre nella citata sentenza si legge: “Tutti i marchi composti da segni o da indicazioni che sono peraltro utilizzati come slogan pubblicitari, indicazioni di qualità o espressioni che incitano all’acquisto dei prodotti o dei servizi designati da tali marchi veicolano per definizione, in maggiore o minore misura, un messaggio obiettivo. Tale situazione può in particolare riscontrarsi quando questi marchi non si riducono ad un messaggio pubblicitario ordinario, ma possiedono una certa originalità o ricchezza di significato, rendono necessario un minimo sforzo interpretativo o innescano un processo cognitivo presso il pubblico di riferimento.

Come si possono distinguere quindi gli slogan registrabili da quelli non registrabili?

L’Euipo sulla base della giurisprudenza prodotta in questi anni, ha messo a disposizione una serie di linee guida (rinvenibili sul sito https://guidelines.euipo.europa.eu/1922901/1802830/direttive-di-marchi/4-slogan--valutazione-del-carattere-distintivo) utili ad individuare quando lo slogan presenta non solo un valore pubblicitario, ma anche un carattere distintivo:

“È possibile che uno slogan pubblicitario sia distintivo ogniqualvolta è considerato più di un semplice messaggio pubblicitario che esalta le qualità dei prodotti o dei servizi in questione, in quanto:

  • costituisce un gioco di parole e/o

  • introduce elementi di intrigo concettuale o sorpresa, in modo che possa essere percepito come segno fantasioso, sorprendente o inaspettato, e/o

  • ha qualche particolare originalità o risonanza e/o

  • innesca nella mente del pubblico di riferimento un processo cognitivo o richiede uno sforzo interpretativo.

Oltre a quanto sopra, le seguenti caratteristiche di uno slogan possono contribuire perché possa essere riconosciuto il suo carattere distintivo:

  • strutture sintattiche insolite
  • l’uso di artifici linguistici e stilistici, come ad esempio allitterazioni, metafore, rima, paradosso ecc

Alla luce di queste guidelines e della recente sentenza del Tribunale Comunitario sul marchio GO CLEAN il quadro sembra essere più chiaro: ferma restando la funzione di indicatore di origine che deve avere il marchio, questa può essere assolta anche attraverso uno slogan pubblicitario purché lo stesso non si riduca ad una “semplice formula elogiativa”.

Il marchio deve quindi innanzi innanzitutto indicare al pubblico la provenienza di un prodotto o servizio da una determinata fonte imprenditoriale. Secondariamente, il marchio svolge senza dubbio anche una funzione pubblicitaria.

Ma quando quindi la funzione distintiva del marchio resiste nonostante il carattere spiccatamente pubblicitario dello stesso?

Più chiara rispetto ai precedenti citati appare l’ultima decisione in commento del Tribunale secondo cui:

“41 - È infatti sufficiente, per constatare l’assenza di carattere distintivo, rilevare che il marchio contestato indica al consumatore una caratteristica del prodotto relativa al suo valore commerciale che, senza essere precisa, deriva da un’informazione a carattere promozionale o pubblicitario che il pubblico di riferimento percepirà in primis in quanto tale, piuttosto che come un’indicazione dell’origine commerciale dei prodotti.

42 - Orbene, nel caso di specie, il pubblico di riferimento non avrà bisogno di fare alcuno sforzo interpretativo per comprendere la locuzione «go clean» come un’espressione che incita all’acquisto e che enfatizza l’attrattività dei prodotti di cui trattasi, rivolgendosi direttamente ai consumatori e invitandoli ad acquistare prodotti che offrano loro una maggiore pulizia e una migliore igiene”.

Si potrebbe dire che quindi che quando lo slogan, non è banale e scontato ma impone comunque al consumatore un certo sforzo interpretativo per coglierne il significato, lo stesso si candida ad essere accettato come marchio.

È bene ricordare che un parametro fondamentale per valutare il carattere distintivo di un segno è il “pubblico di riferimento”.

Lo slogan quindi può essere registrato come marchio se dotato di sufficiente capacità distintiva e percepito dal pubblico di riferimento, come un segno che indica la provenienza imprenditoriale di un prodotto o servizio e non solo un’espressione elogiativa o semplice messaggio promozionale: “31 Un tale marchio deve essere considerato privo di carattere distintivo se è idoneo ad essere percepito dal pubblico di riferimento soltanto come una semplice formula promozionale”.

Un suggerimento potrebbe essere quello di non effettuare subito un deposito di uno slogan, ma di attendere che lo stesso abbia acquisito una certa diffusione e notorietà tra il pubblico, un cosiddetto secondary meaning insomma, che lo renda immediatamente ricollegabile ad un certo prodotto (rectius: ad una certa fonte imprenditoriale).

In questo caso infatti la funzione distintiva del marchio “è salva” in quanto garantita dal cosiddetto secondary meaning.

Divieto di concorrenza nella cessione d’azienda: il silenzio può costare caro

Mattia Raffaelli – Of Counsel Sofia Mercedes Bovoli– Trainee

Mattia Raffaelli – Of Counsel

Sofia Mercedes Bovoli– Trainee

Importante disposizione che occorre tener in considerazione quando ci si appresta a una cessione di azienda, di un ramo di azienda o in ogni caso ad un’operazione assimilabile alla stessa, è l’art. 2557 del codice civile in materia di concorrenza.

L’art. 2557 c.c. sancisce, a specifica tutela dell’acquirente di un’azienda, il divieto per il cedente, in seguito al perfezionamento dell’operazione, di condurre attività concorrenziale, per un periodo di tempo massimo di cinque anni dall’avvenuta cessione. Pertanto, quale effettuo naturale ed automatico della cessione, chiunque proceda all’alienazione di un’azienda dovrà astenersi dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta.

Due sono le questioni che occorre evidenziare: da una parte l’applicazione automatica del divieto e dall’altra la forza estensiva e l’applicazione analogica dello stesso.

Analizzando per punti:

a) L’applicazione automatica del divieto: il divieto di concorrenza è posto dal legislatore quale effetto naturale della cessione d’azienda, alla base della funzione economica sociale dell’operazione stessa. Pertanto, nel silenzio delle parti, tale divieto dispiegherà i propri effetti indipendentemente da una esplicita volontà in tal senso. Di conseguenza, se non disposto diversamente, si applicherà automaticamente il divieto nei limiti e alle condizioni imposte dal legislatore.

Tuttavia, è concesso alle parti di derogare al divieto di concorrenza sia nell’ipotesi di un affievolimento che di un irrobustimento dello stesso. Innanzitutto, con riguardo alla durata del medesimo, è possibile prevedere una durata inferiore ai 5 anni previsti dal legislatore, ma mai superiore e ciò in ragione della tutela dell’iniziativa privata del cedente. Inoltre, l’ambito di applicazione del divieto può essere limitato da un punto di vista dell’oggetto o dell’ubicazione e pertanto si potrà impedire al cedente di esercitare l’attività in concorrenza soltanto in un delimitato territorio e per specifiche attività. Al contrario, in maniere specularmente opposta, è possibile prevedere limiti che vadano ad ampliare l’efficacia del disposto normativo, estendendo l’oggetto del divieto ad attività ulteriori rispetto a quelle già esercitate tramite l’azienda ceduta. In ogni caso, le eventuali deroghe “peggiorative” imposte a carico del cedente non possono essere tali da impedire di fatto lo svolgimento di ogni attività professionale da parte del medesimo.

b) Forza estensiva e applicazione analogica del disposto: la Cassazione ha in più di un’occasione ribadito il carattere non eccezionale del divieto e pertanto ha riconosciuto, a più riprese, l’applicazione analogica dell'articolo 2557 c.c.. Di conseguenza, pare opportuno individuare le fattispecie e le operazioni assimilabili alla cessione d’azienda alle quali è possibile estendere tale divieto.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere possibile l'applicazione analogica del divieto a tutte le ipotesi in cui nella sostanza si realizzino operazioni assimilabili e analoghe alla cessione di azienda o di un ramo di essa. La giurisprudenza ha riconosciuto l’applicazione automatica del divieto anche nel caso della cessione di partecipazioni di maggioranza di una società. La violazione di tale divieto, inoltre, si realizzerebbe sia nel caso in cui i soci cedenti costituiscano una nuova società con medesimo oggetto sociale di quella ceduta sia nel caso in cui gli stessi assumano la qualifica di amministratori in una società concorrente. L’esigenza di tutela del cessionario è sempre la medesima, si pensi, ad esempio, alla possibilità di sviamento della clientela derivante dal subentro nella gestione aziendale di un soggetto che, essendo noto alla clientela, della quale conosce tendenze e abitudini, può avere sulla stessa un a considerevole capacità di attrazione . Pertanto, al fine di valutare la possibile applicazione analogica del disposto dell’art. 2557 c.c., anche in ragione della sua applicazione automatica, occorre valutare caso per caso la volontà sottesa delle parti e il risultato economico che intendono perseguire con una determinata operazione. Non di rado, infatti, la scelta fra cessione d'azienda o di partecipazioni sociali è determinata principalmente da ragioni di opportunità fiscale o di limitazione delle responsabilità del cessionario.

Occorre precisare che la violazione del divieto di concorrenza disciplinato all’art. 2557 c.c. darebbe titolo al cessionario di richiedere:

a) la risoluzione per inadempimento contrattuale.

b) Il risarcimento del danno patito e subito a conseguenza della violazione (pari, ad esempio, al minor guadagno o alla diminuzione del valore dell’azienda dovuto allo sviamento della clientela);

c) l’inibitoria, in via cautelare, della condotta illecita ai sensi dell’art. 700 c.p.c.

In conclusione, tenuto conto dell’effetto automatico della normativa qui analizzata, quando ci si appresta a operazioni che di fatto realizzano una sostituzione di un soggetto a un altro nella conduzione dell'impresa e nell’esercizio di una data attività, è necessario, onde evitare di incorrere in spiacevoli sorprese, muoversi di conseguenza, disciplinando l’applicazione e la portata del divieto.

La tutela del modello registrato assorbe quella di concorrenza sleale e look alike

Il mercato dei prodotti per la cura delle piante vede fronteggiarsi imprese che condividono i medesimi punti vendita specializzati: si tratta di garden center e vivai, che offrono in vendita i prodotti per tipologia, allocandoli in scaffali o settori contigui.

Per distinguere i propri prodotti da quelli dei concorrenti, Vigorplant, che produce e commercializza terricci e fertilizzanti, aveva lanciato nel 2019 una nuova gamma di cinque terricci caratterizzata da un packaging con un colore diverso per tipologia di prodotto e un nuovo prodotto top di gamma.

Il packaging presentava, oltre a una colorazione specifica secondo la categoria di terriccio che conteneva, una peculiare suddivisione del sacchetto in due parti e la collocazione di tre pittogrammi esemplificativi della performance del prodotto in una zona specifica del sacchetto.

Il terriccio top di gamma, aveva, a sua volta, uno specifico packaging di riferimento, composto di uno speciale materiale che rendeva il sacchetto di colorazione blu cangiante ed era stato anche registrato come modello semplice.

Poco tempo dopo il lancio sul mercato di questi packaging, Vigorplant rinveniva sul mercato i prodotti di un concorrente, Tercomposti S.p.A., presentati in dei contenitori che riproducevano la suddivisione per colori, la rappresentazione stilizzata dei prodotti di riferimento e gli stessi pittogrammi collocati nella medesima posizione di quelli dei packaging Vigorplant.

Ravvisando un pregiudizio per il successo commerciale dei propri terricci, Vigorplant proponeva un ricorso cautelare per inibitoria e sequestro nei confronti dei packaging di Tercomposti e inquadrava giuridicamente la vicenda come atto di concorrenza sleale confusoria, parassitaria sinronica e per look-alike (art. 2598 c.c.) e, con riferimento specifico al packaging del terriccio top di gamma, come violazione del proprio modello registrato (art. 31 c.p.i.) proprio di quel packaging.

Esaminando il fumus boni iuris, il Tribunale ha esaminato per prima cosa la doglianza relativa alla violazione del modello registrato, stabilendo che la privativa azionata da Vigorplant possedeva tutti i requisiti di validità stabiliti dagli artt. 32 - 33 bis del codice di proprietà industriale, ovvero: liceità, novità e carattere individuale.

Con specifico riferimento a quest’ultimo requisito - nonostante non sia possibile fare un uso esclusivo di elementi presenti sul packaging quali fiori, terra, pittogrammi informativi, colore blu - l’aspetto generale del sacchetto è stato ritenuto ben caratterizzato dalla specifica disposizione di questi elementi e dalla predominanza del colore blu con effetto cangiante, caratteristiche che, se non potevano essere rinvenute in altri prodotti lanciati sul mercato in epoca antecedente la registrazione, si ritrovavano invece nei sacchetti Tercomposti, che suscitavano la medesima impressione generale del modello di Vigorplant.

Alla luce del fatto che i sacchetti di Tercomposti non si discostavano sufficientemente dal modello di packaging Vigorplant, l’ordinanza in commento ha ritenuto sussistente una violazione della privativa del ricorrente e ha concesso la misura dell’inibitoria, assistita da penale, nei confronti della resistente con riferimento al packaging del prodotto “Superterriccio”.

Le altre confezioni commercializzate da Tercomposti non sono state, invece, ritenute in violazione dei packaging di Vigorplant perché si discostavano maggiormente dall’impressione generale suscitata dal modello registrato azionato.

Sotto il profilo della concorrenza sleale, il Tribunale ha ritenuto che le censure di parassitarietà e imitazione servile non fossero state supportate da prove sufficienti da parte della ricorrente.

Infatti, per quanto riguarda proprio l’imitazione servile, il ricorrente avrebbe dovuto – a detta del Tribunale - valorizzare tutti quegli elementi che potevano provare la distintività del proprio packaging.

Allo stesso modo la concorrenza sleale per look alike (ripresa delle caratteristiche di un prodotto noto) non è stata ritenuta provata sulla base del rilievo per cui non vi erano sulle confezioni Tercomposti elementi sufficienti a creare un collegamento tra i due prodotti, trattandosi di elementi decorativi con colori e con una disposizione diversa.

Anche per quanto riguarda la concorrenza parassitaria sincronica (che si sostanzia nella ripresa simultanea di tutti i prodotti o di molti prodotti di un concorrente), l’ordinanza in commento ha rilevato l’assenza di una ripresa generalizzata delle proposte commerciali di Vigorplant da parte di Tercomposti.

A fronte dei rilievi relativi al caso di specie, appare evidente che un’azione per concorrenza sleale, in tutte le sue declinazioni (parassitaria, imitazione servile, agganciamento) deve essere sempre suffragata da prove idonee a costituire quel substrato di indizi necessari a sostanziare la pretesa .

Tribunale di Milano, ordinanza 4 maggio 2021.

La restituzione delle addizionali provinciali alle accise sull'energia elettrica versate nel 2010 e 2011: ultima chiamata per i "consumatori finali"?

Fino al dicembre 2012 i fornitori di energia elettrica hanno automaticamente addebitato in bolletta alle imprese utilizzatrici l’imposta addizionale provinciale alle accise sull’energia elettrica, per un importo variabile in base alla provincia di erogazione.

Nel 2011, tuttavia, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato l’incompatibilità tra la normativa europea e quella italiana istitutiva dell’imposta addizionale provinciale all’accisa e quest’ultima è stata conseguentemente abrogata nel territorio italiano con decorrenza dal 1 dicembre 2012.

Ne è derivato un esteso e travagliato contenzioso che ha avuto epilogo nel 2019, quando la Suprema Corte di Cassazione, con alcune pronunce del tutto analoghe tra di loro e riguardanti fattispecie nelle quali le imprese utilizzatrici finali avevano generalmente agito nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per richiedere il rimborso delle accise versate, ha affrontato e risolto due temi specifici: (i) l’incompatibilità della disciplina nazionale sulle accise con la legislazione comunitaria e (ii) il conseguente possibile rimborso al consumatore finale delle imposte addizionali indebitamente riscosse.

La Suprema Corte ha in tale sede espresso i seguenti principi:

1) il soggetto obbligato al pagamento delle accise nei confronti dell’Amministrazione doganale è unicamente il fornitore;

2) il fornitore può addebitare integralmente le accise pagate al consumatore finale;

3) i rapporti tra fornitore e Amministrazione doganale, da una parte, e fornitore e consumatore finale, dall’altra, sono autonomi e non interferiscono tra loro;

4) in ragione della menzionata autonomia, il consumatore finale, anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere il rimborso delle accise indebitamente corrisposte direttamente all’Amministrazione finanziaria;

5) il diritto al rimborso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria spetta unicamente al fornitore, che può eccezionalmente esercitarlo:

a. nel caso in cui non abbia addebitato l’imposta al consumatore finale, entro due

anni dalla data del pagamento (che diventa dies a quo per la prescrizione del diritto a chiedere il rimborso);

b. nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente nei suoi confronti una azione giudiziaria di ripetizione di indebito ed entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza;

6) nel caso di addebito delle accise e delle addizionali al consumatore finale, quest’ultimo può esercitare l’azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore.

Le menzionate pronunce della Cassazione hanno pertanto riconosciuto l’inequivocabile diritto del consumatore finale, che ha un rapporto diretto di natura privatistica con il fornitore del servizio, di agire esclusivamente in sede civile nei confronti delle società fornitrici di energia elettrica al fine di accertare l’indebito pagamento effettuato a titolo di addizionale provinciale sull’accisa sull’energia elettrica nel periodo di riferimento 2010-2011 e richiederne quindi il rimborso integrale.

Ne è inoltre indirettamente emersa l’impossibilità sostanziale, per le medesime imprese fornitrici, di addivenire ad un accordo transattivo – conciliativo con il consumatore finale, sia stragiudizialmente che in giudizio, potendo le prime a propria volta esercitare la domanda di rimborso nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria soltanto nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente l’azione giudiziaria di ripetizione di indebito ed entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. Ciò implica che il consumatore finale, per quanto gliene sia stato chiaramente riconosciuto il diritto, potrà ottenere il rimborso delle accise e delle addizionali indebitamente versate al proprio fornitore nel biennio in questione (2010-2011) solamente promuovendo vittoriosamente la relativa azione giudiziale.

Ne sono seguite, a fine 2020, le prime rilevanti sentenze applicative di merito (Tribunale di Milano e Tribunale di Mantova) dove, accogliendo integralmente le domande di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ. promosse dalle società consumatrici finali nei confronti del fornitore di energia elettrica, i Tribunali hanno conseguentemente condannato il fornitore di energia elettrica a restituire alle società ricorrenti le somme versate a titolo di addizionali alle accise versate negli anni 2010 e 2011.

Accertata la debenza delle addizionali indebitamente versate, rimane a questo punto onere delle imprese utilizzatrici finali, prima di poter avviare l’eventuale iter giudiziario di rimborso,

adoperarsi al fine di interrompere tempestivamente e correttamente la decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, che è pari a 10 anni.

Decorso questo termine, infatti, ogni pretesa e diritto del consumatore finale nei confronti delle società fornitrici di energia elettrica potrebbe essere definitivamente pregiudicata.

Ad oggi quindi, per chi non avesse interrotto il termine di prescrizione per l’anno 2010, rimane ancora la possibilità di farlo quantomeno per l’anno 2011.

La Corte di giustizia ritiene valido il marchio per la forma di una singola scanalatura di pneumatico (Yokohama Rubber vs Pirelli Tyre)

Alcuni giorni orsono la Corte di Giustizia della Comunità Europea (“CGCE”) ha emesso un provvedimento con il quale ha respinto l'azione di nullità proposta dal costruttore di pneumatici Yokohama contro la domanda marchio depositata da Pirelli per proteggere una mera parte del battistrada di un pneumatico come marchio.

Con tale decisione la CGCE ha riformato un precedente provvedimento della divisione di appello dell’EUIPO che aveva ritenuto che il disegno di una parte del battistrada non costituisse di per sé un marchio valido in relazione alla classe n. 12 della classificazione di Nizza, in quanto la scanalatura assolveva una funzione meramente tecnica e non distintiva. Tuttavia, nel 2018, la CGCE ha ribaltato questa decisione e ha confermato la registrazione del marchio contestato in particolare anche per questi prodotti.

Yokohama ha impugnato questa decisione davanti Corte di Giustizia Europea, che ha ora emesso una decisione finale in questa controversia (EU:C:2021:431). Anche l'Ufficio europeo dei marchi (EUIPO) e l'Associazione europea dei proprietari di marchi del Regno Unito sono intervenuti nella causa.

Come nei casi precedenti, la possibile funzione tecnica di una parte del battistrada Pirelli è stata ancora una volta oggetto di discussione davanti alla CGCE. Formalmente, sia Yokohama che l'EUIPO hanno fatto valere la violazione dell'articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), del regolamento 40/94 nella sentenza del Tribunale di primo grado del 2018 poi impugnata.

Secondo la CGCE, il Tribunale di primo grado ha erroneamente ritenuto che una singola scanalatura di un pneumatico, che costituiva il marchio contestato, non fosse di per sé in grado di svolgere una funzione tecnica ai sensi dell'articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), del regolamento n. 40/94 perché la scanalatura appariva in un battistrada di pneumatico in combinazione con altri elementi.

Contrariamente all'opinione della ricorrente, il Tribunale di primo grado non aveva escluso la possibilità che l'articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), del regolamento n. 40/94 si applichi a un segno la cui forma è necessaria per ottenere un risultato tecnico che contribuisce al funzionamento di un prodotto, anche se tale forma non è di per sé sufficiente per ottenere il risultato tecnico previsto di tale prodotto. La CGCE ha aggiunto che, al contrario, il Tribunale di primo grado aveva constatato che le prove presentate dalla Yokohama dinanzi all'EUIPO non dimostravano che una sola scanalatura di forma identica a quella rappresentata dal marchio in questione fosse in grado di ottenere il risultato tecnico ipotizzato nella decisione impugnata.

In sostanza, la Corte ha confermato le valutazioni del Tribunale secondo cui il marchio controverso non rappresenta il disegno di un battistrada e quindi non è costituito esclusivamente dalla forma dei prodotti in questione (in particolare pneumatici) ai sensi dell’articolo 7(e)(ii) del Regolamento (CE) n.ro 40/94. Esso rappresenta al massimo una singola scanalatura di un battistrada di pneumatico e non un battistrada di pneumatico, poiché non incorpora gli altri elementi di un battistrada di pneumatico.

Decreto Sostegni-bis: cosa cambia in tema di licenziamenti?

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Sostegni bis (D.L. 73/2021) si è giunti alla definizione di nuove linee guida su uno dei temi certamente più accesi e urgenti dall’inizio dell’”era Covid-19”. Il “nuovo” Decreto tiene fermo il termine del 30 giugno 2021, con una articolata rimodulazione del divieto dei licenziamenti in relazione all’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Cosa cambierà dunque a decorrere dal 1° luglio 2021?

  • Fino al 30 giugno 2021: Blocco dei licenziamenti generalizzato
  • Dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021: Blocco per aziende che beneficiano di CIGD, ASO o CISOA prevista dal Decreto Sostegni
  • Dal 1° luglio 2021 al 31 dicembre 2021 Blocco dei licenziamenti per aziende che beneficiano della CIGO senza pagare i contributi addizionali

Dunque:

Sino al 30 giugno 2021 (termine generale):

  1. resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991;
  2. restano sospese le procedure di licenziamento pendenti avviate in data successiva al 23 febbraio 2020;
  3. resta vietato il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966;
  4. restano sospese le procedure in corso ex articolo 7 della medesima legge (L. n. 604/1966).

Dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021 ai datori di lavoro aventi diritto a FIS e CIGD:

  1. resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991;
  2. restano sospese le procedure di licenziamento pendenti avviate in data successiva al 23 febbraio 2020;
  3. resta vietato il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966;
  4. restano sospese le procedure in corso ex articolo 7 della medesima legge (L. n. 604/1966).

Dal 1° luglio 2021 al 31 dicembre 2021 ai datori di lavoro che attivano la CIGO o la CIGS, per la durata del trattamento fruito e fino al 31 dicembre 2021:

  1. resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991;
  2. restano sospese le procedure di licenziamento pendenti avviate in data successiva al 23 febbraio 2020;
  3. resta vietato il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966;
  4. restano sospese le procedure in corso ex articolo 7 della medesima legge (L. n. 604/1966).

A quanto sopra appare opportuno aggiungere che il nuovo decreto (D.L. 73/2021) in alternativa agli ammortizzatori sociali ordinari, introduce la possibilità per i datori di lavoro di accedere a 26 settimane di Cassa integrazione guadagni straordinaria in deroga, nel periodo tra il 26 maggio 2021 (data di entrata in vigore del decreto) ed il 31 dicembre 2021. Tuttavia, la predetta misura è riservata solo ai datori di lavoro privati (di cui all’articolo 8 comma 1, D.L. Sostegni 1) che, terminate le 13 settimane di interventi Covid, potrebbero accedere solo alla CIG ordinaria. Limiti alla fruizione di questa CIGS speciale i seguenti:

  • la riduzione media dell’orario di lavoro per i dipendenti in CIGS non potrà essere superiore all’80% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile;
  • ciascun lavoratore non potrà subire una riduzione di orario superiore al 90%, con riferimento all’intero periodo interessato dalla CIGS.

Il datore di lavoro che abbia attivato la CIGS in deroga, fino al 31 dicembre 2021, è esonerato dal versamento del contributo addizionale, così come chi accederà alla CIGO o alla CIGS dal 1° luglio 2021, successivamente al periodo di fruizione delle 13 settimane Covid. In ultima analisi, il comma 5 dell’articolo 40 del D.L. Sostegni bis prevede in ogni caso la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro nelle seguenti ipotesi:

  1. cessazione definitiva dell’attività di impresa, conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione (anche parziale) dell’attività, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.;
  2. vigenza di un accordo collettivo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale con il datore di lavoro che abbia ad oggetto l’incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro;
  3. fallimento, quando non è previsto l’esercizio provvisorio dell’impressa ovvero ne sia disposta la cessazione. Non resta che attendere l’auspicata cessazione dello “stato di emergenza” ad oggi prorogato sino al 31 luglio 2021 e la fine dell’anno per valutare possibili nuovi scenari in materia.

Operazioni a premio: rapporti con Facebook e Instagram

Mattia Raffaelli - PartnerSofia Mercedes Bovoli– Trainee

Mattia Raffaelli - Partner

Sofia Mercedes Bovoli– Trainee

Accade sempre più spesso di imbattersi sui Social Network, quali Facebook e Instagram, in operazioni e concorsi che prevedono l’assegnazione di premi, sconti e rimborsi attribuiti agli utenti in cambio della pubblicazione di un “post” o della condivisione di una “storia” su Instagram.

Questi fenomeni, sempre più in crescita, sono infatti vincenti attività di Marketing che hanno come idea centrale quella di rendere protagonisti dell’attività promozionale gli utenti stessi, invitandoli a realizzare contenuti e a promuovere in prima persona un determinato prodotto.

Dal punto di vista giuridico però, la normativa applicabile è piuttosto rigida e, al contrario delle manifestazioni a premio, non fa sconti.

Il nostro ordinamento prevede una disciplina (DPR 430/2001) che ricomprende la maggior parte delle manifestazioni a premio che siamo abituati a vedere sui Social Network e le distingue tra: •concorsi a premio •operazioni a premio I primi consistono in iniziative promozionali attraverso le quali vengono aggiudicati premi senza alcuna condizione d’acquisto, perciò l’attribuzione del premio dipenderà unicamente dalla sorte, da un sistema informatico o da un algoritmo. Le seconde, invece, consistono nell’indizione di un contest con il quale viene offerto un premio a tutti coloro che abbiano acquistato un prodotto durante il periodo di indizione della promozione. Sono previste solo poche eccezioni e deroghe alla disciplina, ad esempio, restano escluse dall’applicazione della normativa i concorsi che hanno finalità sociali, quelli che prevedano la produzione di opere letterarie, scientifiche o artistiche oppure nel caso in cui il premio sia rappresentato da uno sconto o da oggetti di minimo valore.

Occorre inoltre considerare che per organizzare un concorso sui principali Social Network, quali Facebook e Instagram, è necessario rispettare le specifiche condizioni previste in materia dal Social Network stesso ed in particolare, escludere esplicitamente nel regolamento della promozione ogni associazione allo stesso, manlevandolo da responsabilità che possano derivare dall’indizione dell’operazione o del concorso.

Inoltre, il Ministero dello Sviluppo Economico, mediante le FAQ aggiornate e pubblicate il 13 febbraio 2020, ha chiarito alcuni punti particolarmente spinosi della normativa.

Si è infatti evidenziato come sia possibile escludere l’associazione con i Social Network e di conseguenza dispensarli da ogni responsabilità, solo nel caso in cui si garantiscano le pari opportunità per tutti i partecipanti. Pertanto, l’iscrizione al Social Network non può costituire un limite alla partecipazione all’iniziativa promozionale e sarà, quindi necessario riservare la partecipazione al concorso solo a coloro che erano già iscritti al Social Network prima dell'inizio della promozione oppure offrire agli utenti la possibilità di partecipare anche mediante modalità diverse e alternative.

Altro elemento importante e particolarmente limitante è la localizzazione del server di acquisizione delle partecipazioni alla promozione che necessariamente deve trovarsi sul territorio italiano.

In conclusione, l’organizzazione di operazioni o concorsi a premio può a volte non risultare semplice ed immediata. Sarà necessario un lasso di tempo minimo di preparazione ad esempio per provvedere alla redazione di un dettagliato regolamento e talvolta, nei casi richiesti dalla normativa, per comunicare avviso dell’indizione del concorso al Ministero delle Attività produttive, per versare la cauzione pari al valore dei premi nel loro complesso o per dotarsi di una privacy policy a prova di GDPR.

Abusi di dominanza. Google/Android

L’Autorità antitrust italiana (AGCM) ha mostrato rinnovata attenzione nel combattere gli abusi di dominanza, sanzionando pesantemente Google (€102 milioni) per aver ostacolato l’accesso su Android Auto (AA - di proprietà di Google) ad un’applicazione (Juicepass) sviluppata da Enel e finalizzata alla ricerca/prenotazione di colonnine di ricarica elettrica per auto. La negata interoperabilità tra JuicePass e AA comportava che quando l’utente/conducente cercava le colonnine di ricarica su AA per localizzarle e prenotarsene una, quelle di JuicePass non gli apparivano.

Google, in tal modo, ha favorito la propria app Google Maps (e i suoi clienti inserzionisti di pubblicità, concorrenti di Enel), che poteva essere utilizzata su Android Auto, consentendo servizi funzionali alla ricarica dei veicoli elettrici in concorrenza con JuicePass. Quanto alla soglia di dominanza, ricordiamo che Android, e quindi AA, è utilizzato da circa il 75% degli utilizzatori, una quota che rende certamente difficile confutare la dominanza di Google su questo mercato.

Questo caso mostra nuovamente la necessaria cautela per le prescrizioni del diritto antitrust che deve guidare le imprese dominanti nella definizione delle loro politiche commerciali.

Valore artistico e tecniche innovative di scultura

La stampa 3D, è uno strumento versatile, che si presta a realizzare qualsiasi cosa, da una semplice matita a un intero edificio, che può essere scannerizzato, trasformato in algoritmo e infine ri-materializzato da un macchinario che lo scolpisce letteralmente in sole 48 ore.

In ambito artistico, le applicazioni sono potenzialmente infinite e oggi, studi di architettura e case di moda fanno sempre più spesso utilizzo di stampanti 3D per realizzare i propri progetti, contenendo i costi e riducendo anche l’impatto ambientale della produzione.

Ma è nel mondo della scultura che l’utilizzo di tecniche di fresatura tridimensionale sono venute alla ribalta con un caso giudiziario di contraffazione di opera d’arte, perché, sé è vero che la stampa 3D è una grandissima opportunità di innovazione per il mondo artistico, la circolazione su larghissima scala di internet di file contenenti informazioni idonee alla riproduzione attraverso le stampanti 3D, crea nuove possibilità di conflitti con i diritti altrui.

E’ quello che è avvenuto con una scultura realizzata con tecniche innovative e progettata in uno dei centri europei di eccellenza della lavorazione in legno: la Val Gardena, che è conosciuta in Italia e all’estero come la patria delle lavorazioni artigianali a carattere religioso; in questo mercato, la famiglia Demetz è attiva da generazioni nella realizzazione di sculture che oggi progetta e realizza attraverso l’impiego di metodi d’avanguardia.

Per realizzare una statua commissionatale da un rivenditore americano nel 2019, la Demetz Art Studio S.r.l., una volta ultimata la realizzazione di un disegno e di un primo esemplare in legno, si è rivolta ad un’impresa fiorentina perché realizzasse la fresatura robotica dalla statua a partire da una scansione 3D, che le ha consegnato in un apposito file, con l’espressa indicazione di restituirlo o distruggerlo e, in ogni caso, di non realizzare altri esemplari della statua.

A fresa ultimata e consegnata la statua negli Stati Uniti, la famiglia Demetz notava su Facebook il post di una fotografia, scattata nello stesso stabilimento in cui era stata realizzata la fresatura e che raffigurava proprio la statua che aveva commissionato; da un’ispezione a sorpresa, rinveniva sul posto anche un’altra copia in lavorazione della statua e la sua immagine inserita in un depliant.

Dopo aver chiesto inutilmente la restituzione del file della scansione 3D, che consentiva di realizzare le copie delle statua, la Demetz Art Studio S.r.l. instaurava un procedimento d’urgenza dinnanzi al Tribunale di Firenze, chiedendo descrizione, sequestro ed inibitoria del file della scansione, delle copie della statua e del materiale promozionale su cui era raffigurata.

Il Tribunale accoglieva le richieste della ricorrente con decreto inaudita altera parte e, in sede di conferma del provvedimento, metteva in luce alcuni aspetti relativi alla tutela riconosciuta dal diritto d’autore alle opere creative.

Il primo aspetto interessante del provvedimento riguarda, in termini generali, il rapporto tra creazione artistica e nuove tecnologie di realizzazione dell’opera: a detta del Tribunale, la creatività e la paternità di un’opera non vengono meno nel momento in cui ne avviene la trasposizione in immagine digitale e poi la riproduzione meccanica, nemmeno quando la realizzazione di queste fasi di lavorazione abbiano comportato l’intervento esecutivo di terzi.

Prendendo posizione nello specifico sull’uso illecito dell’opera altrui, il Tribunale ha disatteso la tesi della resistente che sosteneva di aver utilizzato l’immagine della statua sui depliant e sulle brochure solo a dimostrazione delle proprie capacità realizzative; infatti, anche la rappresentazione e l’utilizzo di un’opera altrui come esempio della propria abilità esecutiva costituisce ugualmente un uso finalizzato ad ottenere un vantaggio economicamente apprezzabile, anche se solo in termini di risonanza pubblicitaria e, in assenza di autorizzazione dell’autore, integra una violazione dei diritti di privativa di quest’ultimo.

Riconoscendo carattere creativo alla statua realizzata da Demetz, il Tribunale di Firenze ha applicato l’art. 12 comma 2 l.d.a., che stabilisce che spetta all’autore il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo.

Trattandosi di un utilizzo di un’opera altrui diretto a perseguire un vantaggio economico, come quello di ottenere risalto e notorietà presso il pubblico, non poteva trovare applicazione in questo caso quel sistema di eccezioni e limitazioni previsto dalla normativa nazionale sul diritto d’autore per particolari ipotesi meritevoli di tutela.

Infatti, in virtù di norme quali l’art. 70 della legge sul diritto d’autore italiana, è oggi consentito utilizzare liberamente - e senza bisogno di autorizzazione da parte dell’autore - le opere d’arte in tutti i casi in cui occorra la protezione del diritto d’autore si trovi in conflitto con la tutela di obiettivi e valori che, spesso, si pongono in antitesi con esso (per esempio la libertà d’espressione e comunicazione, la tutela della riservatezza degli utenti, il progresso artistico e scientifico, ecc.).

In questo scenario, la Direttiva Copyright del 2019 - di prossimo recepimento in Italia - è intervenuta rendendo gli usi leciti delle opere protette (quali possono essere quelli di citazione, critica, rassegna e gli utilizzi a scopo di caricatura e parodia) oggetto di normazione obbligatoria per tutti gli Stati membri dell’Unione europea.

Tribunale di Firenze, ordinanza 7 gennaio 2021.

Diritto di ripensamento del consumatore nei contratti di vendita a distanza e protezione del venditore: una tutela asimmetrica?

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Stefano Bonacina - Associate

L’art. 52 del D. Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) disciplina il c.d. diritto di recesso o di ripensamento a favore dei consumatori, ovvero delle persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla propria attività professionale ed imprenditoriale. Tale recesso - cui consegue la restituzione del corrispettivo pagato per l’acquisto del bene - è esercitabile nei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali e può avvenire senza alcuna penalità e senza specificazione del motivo, ma necessariamente entro il termine di quattordici giorni decorrente, nei contratti di vendita di beni, dalla data di materiale consegna al consumatore degli stessi.

La ratio della disciplina relativa al diritto di recesso (di matrice europea) è quella di tutelare il consumatore che ha effettuato un acquisto a distanza (ad esempio online) e non ha potuto visionare il prodotto prima della conclusione del contratto. Per utilizzare le parole della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sent. n. 430/17 del 23 gennaio 2019) “si reputa che il diritto di recesso compensi lo svantaggio che risulta per il consumatore da un contratto a distanza, accordandogli un termine di riflessione appropriato durante il quale egli ha la possibilità di esaminare e testare il bene acquistato”.

Tale diritto non è però sempre ed indistintamente garantito in quanto l’art. 59 del Codice del Consumo elenca delle fattispecie tassative in cui viene escluso per legge a priori. Tra le esclusioni previste dalla norma non è tuttavia contemplata la semplice e diversa fattispecie in cui la confezione e l’imballaggio del prodotto siano materialmente aperti e questa omissione ha creato nel corso del tempo una c.d. zona grigia interpretativa non risultando chiaro se, in tale caso, fosse ancora possibile per il consumatore recedere legittimamente dal contratto ed esigere la restituzione del corrispettivo pagato.

Dopo diversi contrasti ed interpretazioni difformi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è però intervenuta sul punto precisando che il recesso è consentito anche dopo aver utilizzato l’oggetto e aperto l’imballaggio (così Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sent. n. 681/17 del 27 marzo 2019). La Corte ha infatti ritenuto che non si possa subordinare l’esercizio del diritto di recesso all’integrità del prodotto: salve specifiche eccezioni, anche chi rimuove materialmente l’intero imballaggio o la semplice pellicola protettiva deve poter sempre restituire la merce a seguito dell’uso, purché sia rispettato il suddetto termine di legge di quattordici giorni e la merce non sia stata in altro modo danneggiata dall’acquirente.

Alla luce dell’esponenziale incremento degli acquisti online degli ultimi anni, la fattispecie qui discussa si verifica ormai in un numero di casi sempre maggiore, ponendo i venditori (che non sono sempre piattaforme di vendita in posizione dominante sul mercato) in una complicata e problematica gestione del processo di vendita. Il prodotto oggetto di restituzione e privato del suo imballaggio originario non è infatti, nella maggioranza dei casi, considerabile come nuovo e non può pertanto essere venduto come tale sul mercato alle condizioni originarie con conseguente riduzione del prezzo della successiva vendita.

Quando ciò si verifica, l’esercizio del c.d. diritto del consumatore si trasforma simmetricamente in un pregiudizio evidente per il venditore che si trova, suo malgrado, a dover subire un danno inevitabile collegato al mero ripensamento dell’acquisto. Quest’ultimo, al fine di eliminare o quantomeno mitigare gli effetti negativi del diritto di ripensamento, potrebbe in definitiva valutare di porre in essere autonomamente azioni di “autotutela” della propria posizione contrattuale (ad esempio predisponendo, ove possibile, un nuovo imballaggio e ponendo in vendita come nuovi beni che in realtà non lo sono) con pregiudizio, in definitiva, proprio del consumatore che la normativa intendeva a tutti i costi tutelare.