copyright

Il successo commerciale di un articolo di moda non comporta automaticamente il riconoscimento della protezione del diritto d'autore (in assenza di prove di creatività e valore artistico)

La tutela legale delle creazioni degli stilisti conta diversi mezzi: dalla concorrenza sleale alla tutela del design, ai marchi di forma, alla tutela offerta dalla legge sul diritto d'autore (L. n. 633/1941): questi strumenti offrono diversi tipi di protezione e possono essere utilizzati solo se vengono soddisfatti specifici requisiti, che devono sempre essere provati.

È comune in questo campo vedere i marchi di moda che cercano di "vestire" i loro prodotti con una varietà di titoli di proprietà intellettuale, registrandoli, per esempio, come marchi di forma o come disegno industriale, al fine di aumentare il livello di protezione contro possibili imitazioni.

Tuttavia, sebbene la protezione mediante registrazione dei diritti di proprietà intellettuale nel settore della moda sia particolarmente diffusa, la natura temporanea dei diritti conferiti dalla registrazione può costituire un ostacolo alla tutelabilità di capi o accessori quando il loro successo commerciale è particolarmente duraturo: in questi casi, per poter accedere ad una protezione estesa nel tempo e che vada oltre le formalità richieste per la registrazione, è necessario dimostrare non solo il particolare gradimento del pubblico, ma anche la creatività e il valore artistico del prodotto per puntare alla tutela del diritto d'autore.

Un caso emblematico della possibile coesistenza di più livelli di protezione per gli articoli di moda e delle difficoltà legate alla prova della creatività e del valore artistico di un prodotto che aspira ad essere considerato copyright è quello recentemente trattato dal Tribunale di Milano.

Il caso riguardava la commercializzazione di borse che imitavano la famosa borsa "Le Pliage" di Longchamp, protetta da due registrazioni di marchio tridimensionale dell'Unione Europea che ne rivendicava la peculiare forma trapezoidale, e caratterizzata anche dalla combinazione di ulteriori elementi originali, quali la patta arrotondata, i manici tubolari e il contrasto di colore e materiali tra gli elementi in nylon e quelli in pelle.

L'attore sosteneva che il modello di borsa "Le Pliage" è stato creato nel 1993 ed è stato ancora commercializzato in tutto il mondo attraverso più di 1.500 punti vendita e anche online e chiedeva la tutela contro le imitazioni, invocando non solo la protezione prevista sulla base di registrazioni di marchi tridimensionali (ex artt. 2 e 20 C.P.I. e art.9 Reg. UE n. 2017/1001), ma anche la violazione dei diritti dell'autore e dei principi a tutela della concorrenza leale sul mercato (art. 2598 c.c.).

Il Tribunale ha innanzitutto riconosciuto la violazione dei marchi europei tridimensionali dell'attrice nella misura in cui è stata accertata non solo la loro capacità distintiva dovuta alle modalità di utilizzo e presentazione del marchio stesso e alle informazioni e suggestioni veicolate attraverso la pubblicità e la percezione che la forma determina sul pubblico dei consumatori, ma anche l'assunzione, da parte delle borse imitative, di tutti gli elementi distintivi del modello "Le Pliage".

Per quanto riguarda l'invocata tutela del diritto d'autore, facendo riferimento alla propria giurisprudenza sul punto, la sentenza ha stabilito che non era possibile individuare nel caso di specie l'effettiva esistenza del carattere artistico necessario affinché la forma della borsa potesse godere di tale tutela.

I giudici hanno rilevato che, a parte l'innegabile successo commerciale ottenuto sul mercato, l'attore non aveva allegato gli elementi che avrebbero dovuto confermare la presenza di un valore artistico nella creazione dell'aspetto esterno del modello di borsa in questione.

In altre parole, non vi era alcuna prova dei requisiti di creatività e valore artistico che presuppongono l'applicabilità dell'art. 2.10 della legge sul diritto d'autore.

Come è noto, il valore artistico può essere desunto da una serie di parametri oggettivi, quali il riconoscimento da parte di ambienti culturali ed istituzionali dell'esistenza di qualità estetiche ed artistiche, l'esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, l'assegnazione di premi, l'acquisizione di un valore di mercato così elevato da trascendere quello legato alla sola funzionalità o la creazione da parte di un artista noto e, in assenza di prova, non è possibile accedere alla tutela prevista dalla legge sul diritto d'autore.

Disney e la tutela IP dei suoi personaggi: da Topolino ai remake dei “classici”

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Con una conoscenza del marchio che supera il 90% della popolazione mondiale, Mickey Mouse è ancora oggi il personaggio animato più conosciuto a livello internazionale da adulti e bambini.

A quasi 100 anni dalla sua creazione, Topolino incarna l’essenza dell’azienda Disney e tra merchandising, remake, giochi, accessori, parchi a tema e altri servizi il suo sfruttamento vale ancora miliardi di dollari.

L’amore di Walt Disney per Mickey Mouse - che è anche stato il suo principale asset aziendale - l’ha portato a studiare efficaci strategie al fine di estendere i diritti di proprietà intellettuale del suo personaggio e da consentirgli di continuare a sfruttare la sua immagine in modo esclusivo.

Topolino e la tutela del Copyright negli USA

La prima legge che tutelava il diritto d’autore negli USA fu il Copyright Act del 1790 che garantiva una protezione delle opere creative per 28 anni.

Con due successivi provvedimenti legislativi il Congresso aveva ampliato la tutela e il periodo di protezione era stato esteso a 42 anni con l’emendamento del 1831 e a 56 con quello del 1909.

Nell’autunno del 1928 Disney presentò al pubblico il corto animato “Steamboat Willie” in cui compare per la prima volta il personaggio di Mickey Mouse. Il corto – in quanto opera intellettuale - ricadeva sotto la protezione prevista dal Copyright Act del 1909 e garantiva una protezione della durata di 56 anni. Il personaggio di Mickey Mouse sarebbe quindi stato tutelato fino al 1984 per poi cadere in pubblico dominio. Per evitare che ciò accadesse, Disney, già all’inizio degli anni ’70, cominciò ad esercitare pressioni sul Congresso degli USA affinché modificasse la legislazione vigente in materia di diritto d’autore. Nel 1976 la normativa venne ampiamente emendata ed avvicinata agli standard europei garantendo una protezione da un minimo di 56 anni ad un massimo di 75. Disney era così riuscito ad estendere la protezione per il suo personaggio di quasi un ventennio.

Nonostante questo indiscusso successo, la battaglia di Disney per continuare a sfruttare in esclusiva i suoi personaggi non si arrestò. Già all’inizio degli anni ’90 l’azienda cominciò ad esercitare nuove attività di lobbying per l’estensione del copyright: questa volta non era in gioco solo il copyright di Mickey Mouse ma anche quello di Minnie, Donald Duck, Daisy, Goofy e Pluto che sarebbero caduti in pubblico dominio entro la fine del primo decennio degli anni 2000.

Alla fine degli anni ’90, il Congresso ha presentato un’ulteriore proposta per l’estensione della durata della protezione garantita dal Copyright Act.

La proposta prevedeva l’estensione del copyright per le aziende da 75 a 95 anni.

Topolino e la sua banda: nuovo design per l’estensione della protezione e registrazione del marchio

Nel 1998 la riforma è stata approvata ed il Copyright di Topolino e i suoi colleghi è stato prorogato per altri 20 anni.

La data prevista al momento per la scadenza del copyright di Mickey Mouse è il 2024.

Ciò che però è necessario notare è che il Copyright in scadenza è solo quello di Mickey Mouse con il design della prima versione di Topolino, vale a dire del Topolino così come è stato rappresentato in “Steamboat Willie” e non quello delle versioni successive.

Nei decenni i disegnatori Disney si sono ben preoccupati infatti di modificare le proporzioni della sua fisionomia e di aggiungere accessori al personaggio (ad esempio i guanti gialli, diversi colori nell’abbigliamento), di modernizzare il tratto e di renderlo più in linea con il mutato gusto del tempo.

Oggi i bambini riconoscono Mickey Mouse nella sua attuale versione o in quelle appena precedenti ma faranno fatica ad identificare lo stesso personaggio nel Topolino di “Steamboat Willie”.

Oltre alle considerazioni fatte sul copyright di Mickey Mouse è bene ricordare che la mascotte è protetta anche come marchio registrato e garantisce a Disney la possibilità di utilizzarlo in maniera esclusiva e illimitata in tutto il mondo con il solo onere di provvedere al suo rinnovo.

Il remake dei “Classici” Disney

A partire dal 2010 Disney ha riproposto i suoi “Classici” (che sono adattamenti di opere di altri autori i cui diritti sono in molti casi scaduti) presentando delle versioni più moderne dei cartoni animati più amati di sempre.

E’ ragionevole ipotizzare che Disney, riproponendo delle nuove versioni dei classici, volesse raggiungere molteplici obiettivi. Tra questi vi è sicuramente quello di attrarre nelle sale cinematografiche un vasto pubblico con la certezza di incontrare il gusto di un folto gruppo di appassionati – composto da adulti e bambini – che già conoscevano la storia ed erano fan dei protagonisti. Inoltre, con l’avvicinarsi della scadenza del copyright – così come era successo con Mickey Mouse – il remake era la perfetta occasione per modernizzare il design di molti personaggi e rivisitarli in chiave moderna (in alcuni casi i disegni animati sono stati sostituiti da attori in carne ed essa). Così facendo Disney ha avuto la possibilità di sostituire le vecchie produzioni con quelle nuove e di poter godere di un nuovo ed intero periodo di protezione per le sue opere creative. In questo modo l’azienda ha anche avuto la possibilità di continuare ad utilizzare i suoi personaggi per il vastissimo assortimento di merchandising o dare in licenza i diritti di sfruttamento.

La strategia del “remake” ha inoltre permesso a Disney di rimuovere dai classici le parti di sceneggiatura non più in linea con i tempi (ad esempio battute sessiste sul ruolo della donna nel contesto familiare, modelli di famiglia in contrasto con l’evoluzione della società, scene in cui i protagonisti erano sotto l’effetto di sostanze dannose).

La storia di Disney dimostra come tutelare gli asset di proprietà intellettuale di un’azienda sia a fondamento di un successo planetario e che dura da quasi un secolo. Strutturare un’efficace tutela IP deve pertanto essere alla base della strategia aziendale di ogni realtà che vuole imporsi come leader nel suo settore per gli anni avvenire.

Human Feelings as Drugs. La Corte d'appello di Milano ribalta la decisione resa in primo grado.

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Recentemente la Corte di Appello ha ribaltato un giudizio reso nel settembre del 2018 dal Tribunale di Milano di cui c’eravamo occupati in questo blog - https://clovers.law/it/blog/2019/1/31/la-tutela-delle-fotografie-tra-opere-artistiche-e-semplici .

La vicenda traeva spunto dalla presunta violazione del diritto d’autore di una fotografia denominata “Human Feelings as Drugs”, consistente nella realizzazione di fotografie, stampe e poster riproducenti fialette di medicinali di svariati colori, recanti la scritta “empathy”, “hope”, “love”, “peace” e “joy” con riportate le frasi espressive del relativo sentimento o dell’emozione.

Nel progetto, l’artista Valerio Loi intendeva realizzare l’idea di assumere “sentimenti come medicine”, in modo da “permettere al paziente un istantaneo risveglio della percezione e un reintegro all’interno del flusso vitale delle emozioni”.

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 L’attore lamentava l’illecita riproduzione da parte della società convenuta, Queriot  de la Bougainville S.r.l.,  di una serie di ciondoli -abbinati a collane e braccialetti – che avrebbero riprodotto le proprie fialette, con identiche denominazioni dei sentimenti, accompagnate dalle stesse frasi illustrative. Ha dunque invocato l’inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza.

 Il Tribunale di primo grado aveva ribadito che in materia di opere fotografiche, il carattere artistico presuppone l’esistenza di un atto creativo in quanto espressione di un’attività intellettuale preminente rispetto alla mera tecnica materiale. La modalità di riproduzione del fotografo deve trasmettere cioè un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla rappresentazione oggettiva cristallizzata, rendendo cioè una soggettiva interpretazione idonea a distinguere un’opera tra altre analoghe aventi il medesimo oggetto. Il requisito della creatività dell’opera fotografica sussiste ogniqualvolta l’autore non si sia limitato ad una riproduzione della realtà, ma abbia inserito nello scatto la propria fantasia, il proprio gusto, la propria sensibilità, così da trasmettere le proprie emozioni.

 In materia di opere fotografiche, la natura artistica della riproduzione non può desumersi dalla notorietà del soggetto o dell’oggetto che è ritratto, giacché il valore dell’opera artistica si apprezza in virtù di canoni di natura formale – che esprimano in modo assolutamente caratteristico ed individualizzante la personalità dell’autore – dovendo invece il relativo giudizio prescindere dall’oggetto o dal soggetto in sé riprodotto.

 Nel caso in esame il Tribunale aveva escluso la natura artistica delle immagini litigiose essendo impossibile ravvisarne proprio quegli aspetti di originalità e creatività che risultano indispensabili per riconoscere la piena protezione ex art. 2 l. aut. A dire del Tribunale l’attore non ha indicato precise inquadrature ovvero un'attenta selezione delle luci o ancora particolari dosaggi di toni chiari e scuri che il Collegio possa apprezzare. Non sembrano neppure qui rivenirsi quei peculiari indici che identifichino quell’impronta personale e peculiare del fotografo ovvero quella capacità di intervenire sul soggetto in modo tale da evocare suggestioni, che appunto, valgono a distinguere un’opera fotografica da una fotografia semplice.

Sulla scorta di tale decisione, Valerio Loi, al fine di vedersi dichiarare l’artisticità della sua opera ed ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti per l’abusivo sfruttamento della stessa  ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado ottenendo la totale riforma della stessa.

In merito alla sussistenza del diritto d’autore per opera fotografica in capo a Valerio Loi, i giudici della Corte d’Appello di Milano, contrariamente a quanto stabilito dal Collegio in primo grado, hanno ritenuto che: “la presenza del carattere creativo o meno nell’opera fotografica debba essere verificata, valutando unitariamente il soggetto, riprodotto nella fotografia, e le modalità fotografiche, con cui il soggetto è stato fotograficamente reso, posto che la suggestione emozionale dell’opera fotografica deriva proprio dalla stretta connessione esistente tra il soggetto fotografato, ovviamente tridimensionale, e le particolari modalità con cui lo stesso viene reso nell’immagine fotografica bidimensionale. Peraltro la creatività, idonea a conferire all’opera fotografica valore artistico, da un lato, non coincide con il concetto di creazione, originalità e novità assoluta, ma si riferisce alla personale ed individuale espressione di un'oggettività, appartenente alle categorie elencate nell’art.1 L. 633/1941, di guisa che è sufficiente la sussistenza di un atto creativo, anche minimo, dall’altro lato, non è costituita dall'idea in sè, ma dalla forma della sua espressione, cioè dal modo con cui l’idea si concretizza nel mondo esteriore [...]” e che dunque “Non vi è alcun dubbio che l’opera fotografica in questione presenti un rilevante tasso di creatività […]”.

In conclusione, dunque, la Corte ha deciso che l’opera di Valerio Loi “Human Feelings as Drugs” debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia

La Ferrari GTO è un'opera tutelata dal diritto d'autore.

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Il Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di impresa ha recentemente accodato la tutela del diritto d’autore al modello di Ferrari forse più conosciuto ed apprezzato di sempre: la 250 GTO.

Il numero, 250, sta per la cilindrata di ciascun cilindro in centimetri cubi del motore V12 3000 cc di cilindrata. GTO sta per "Gran Turismo Omologata". Tale sigla non verrà poi utilizzata per parecchi anni fino alla presentazione nel 1984 della Ferrari 288 GTO.

Per il Collegio, interpellato dalla Ferrari per difendere il modello da un tentativo di riproduzione da parte di una società di Modena, «la personalizzazione delle linee e degli elementi estetici, hanno fatto della Ferrari 250GTO un unicum nel suo genere, una vera e propria icona automobilistica». «Il suo valore artistico – prosegue l’ordinanza - ha trovato oggettivo e generalizzato riconoscimento in numerosi premi e attestazioni ufficiali», in «copiose pubblicazioni» e nella riproduzione «artistica» su monete e sotto forma di «sculture», periodicamente esposte nei musei.

Il Tribunale ha così emesso un’ordinanza che inibisce alla società specializzata in tuning di riprodurre la forma della 250GTO in rendering e in modelli di autovetture.

L’azienda resistente era infatti pronta a lanciare sul mercato una decina di repliche della 250 GTO, al prezzo circa di 1 milione di euro l’una, che riproducevano (aggiornandolo) il leggendario modello anni ’60.

Il punto sulla proposta di riforma comunitaria sul diritto d'Autore.

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L'Unione Europea sta lavorando alla riforma della direttiva sul diritto d’autore. Uno dei maggiori problemi con la nuova proposta di riforma del copyright dell'UE è l'articolo 13, che stabilisce che i siti web che accettano i contenuti degli utenti (qualsiasi cosa, dai video ai commenti online) devono avere un "filtro di caricamento" che bloccherebbe tutti i contenuti protetti da copyright che vengono caricati dagli utenti.

Secondo la proposta le aziende dovrebbero ottenere una licenza per qualsiasi contenuto protetto da copyright che viene caricato sul proprio sito dai propri utenti. In altre parole, i siti Web sarebbero responsabili per qualsiasi contenuto che i loro utenti caricano sul sito.

Alcuni sostengono che i filtri non sarebbero in grado di riconoscere "usi legali" di contenuti protetti da copyright, anche se fossero efficaci al 100% nell'identificare se un contenuto è o meno protetto da copyright. In questa categoria entrano parodie e citazioni che tipicamente fanno riferimento a contenuti leciti permessi dalla legge sul diritto d’autore.

È quindi contestato se l’uso di filtri è di per se legale o se viola i diritti fondamentali alla privacy, alla libertà di espressione, alla libertà di informazione e alla libertà di condurre un'impresa.

Un altro articolo in discussione è la cosiddetta proposta "link tax" nell'articolo 11 della direttiva sulla riforma del copyright, un'altra idea che non è solo apparentemente negativa, ma ha anche fallito in paesi come Spagna e Germania, dove è già stato tentato. Invece di indurre aziende come Google o altri editori a pagare per i link, o estratti di articoli e anteprime, queste aziende hanno semplicemente smesso di collegarsi a contenuti provenienti da Germania e Spagna.

I critici ritengono che una tassa sul link ridurrebbe in modo significativo il numero di collegamenti ipertestuali che vediamo sul web, il che significa che i siti web saranno molto meno collegati tra loro.

Questi due articoli sembrano allo stato essere i più controversi ed i critici credono che la direttiva possa avere un impatto negativo sulle società extraeuropee operanti nell'UE.

IL PREZZO DEL CONSENSO.

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Recentemente il Tribunale di Torino si è espresso sul tema della pubblicazione di fotografie in un sito internet senza la preventiva autorizzazione dell’autore e il riconoscendo la quantificazione del risarcimento sulla base del principio del “prezzo del consenso”.

L’autore di alcune fotografie, accortosi che le stesse comparivano all’interno di una piattaforma web, ha chiesto, in primo luogo, di essere riconosciuto titolare dei diritti di sfruttamento economico sulle stesse e, in secondo luogo, che gli fossero riconosciuti e, soprattutto, che fossero quantificati i diritti di sfruttamento economico allo stesso spettanti.

Il titolare delle fotografie chiedeva altresì che fossero riconosciuti e sanzionati anche gli atti di concorrenza sleale, nella forma della concorrenza parassitaria, posti in essere per aver, l’illegittimo utilizzatore della fotografie, contrariamente alle regole di correttezza professionale, sfruttato sistematicamente il lavoro del titolare delle stesse e per aver posto in essere attività potenzialmente idonee a privare la concorrente di quote di mercato.

Il Tribunale di Torino nel dirimere la controversia ha statuito non solo che l’illegittima pubblicazione in un sito web di fotografie altrui da parte di terzi non autorizzati costituisce violazione dei diritti di sfruttamento economico, ma anche che tale violazione debba essere sanzionata applicando il principio del “prezzo del consenso”.

Più precisamente, secondo tale criterio, la sanzione da comminare per l’illegittimo sfruttamento dei diritti d’autore deve essere quantificata sulla base della somma che il titolare dei diritti avrebbe percepito quale corrispettivo a seguito del raggiungimento di un accordo con l’utilizzatore. E la quantificazione del “prezzo del consenso” deve basarsi sul corrispettivo in precedenza richiesto dal titolare per la cessione di ogni singola fotografia, a favore di terzi soggetti.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di risarcimento del danno in relazione ai presunti atti di concorrenza sleale nella forma della concorrenza parassitaria, i giudici torinesi hanno stabilito che, nonostante nel caso in esame possano essere riscontrate plurime condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, nonché dirette al sistematico sfruttamento del lavoro della titolare dei diritti di sfruttamento sulle fotografie, alcun danno patrimoniale ed extra-patrimoniale potrebbe essere riconosciuto in capo allo stesso poiché non adeguatamente provato.

IL PUNTO SULLA LINK TAX

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Gli ultimi giorni sono stati decisamente turbolenti per le web companies con il Governo sempre alla ricerca di nuove misure per tassare la rete. Ma queste manovre rappresentano la soluzione migliore per il nostro Paese?

La proposta di riforma della Direttiva Copyright, una delle regolamentazioni della Commissione Europea più discusse non sembra trovare il consenso nel corso delle discussioni al Parlamento europeo.

In particolare l’introduzione di un nuovo diritto (art. 11) a favore degli editori (link tax) e l’obbligo (art. 13) per gli intermediari della comunicazione di predisporre dei filtri per i contenuti immessi dagli utenti, al fine di eliminare quelli in violazione del copyright.

Il meccanismo tenta di monetizzare una delle attività genetiche del web, l’ipertesto ma il timore è che possa verificarsi quanto già successo in Spagna e Germania, dove gli editori hanno il diritto di farsi pagare da Google News. Il risultato è stato un crollo di traffico sui siti degli editori.

Di recente però, le apparenti conseguenze negative derivanti dall’adozione della link tax in Spagna sembrano non avere dissuaso il Governo italiano dall’adottare un’iniziativa simile. Apparentemente il Governo sta studiando una norma che obblighi gli aggregatori di notizie come Google News a raggiungere un accordo commerciale con gli editori. Nel caso in cui questo accordo fallisca, un procedimento di mediazione potrebbe nascere davanti all’AgCom o alla sezione dedicata della Presidenza del Consiglio prima di sfociare in un procedimento giudiziario.

 

Selfie Selvaggio

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I giudici statunitensi hanno recentemente messo fine alla battaglia giudiziaria sul selfie di Naruto, il macaco indonesiano che più di dieci anni fa spopolò sul web con un autoscatto. La decisione della Corte ha dato ragione a Slater, il proprietario della macchina fotografica, e ha rigettato le pretese di PETA, un’organizzazione no-profit statunitense che si occupa di diritti degli animali, che sosteneva le ragioni del macaco.

La bizzarra vicenda inizia nel 2011, quando David Slater, fotografo professionista, si trovava nelle foreste dell’Indonesia per immortalare alcune tra le più particolari specie animali. Imbattutosi in un branco di scimmie, lasciò per qualche momento incustodita la sua macchina fotografica. Fu così che un fotogenico macaco, Naruto, l’afferrò e iniziò a scattarsi centinaia di selfies. Alcuni, come capita anche alle migliori instagrammer, mossi e sfuocati, altri invece quasi perfetti. Il fotografo pubblicò una delle foto sul proprio blog e subito l’immagine diventò virale. Sulla scorta di un’interpretazione letterale della legge statunitense in tema di diritto d’autore, Wikimedia, la società americana proprietaria del dominio Wikipedia, decise allora di inserire l’immagine nella sua collezione di contenuti Wikimedia Commons, una raccolta di oltre 20 mila immagini e video pubblici e fruibili dalla collettività in quanto privi di diritti d’autore. Secondo la normativa americana, infatti, i diritti su una foto sono di titolarità del suo autore ovvero chi l’ha scattata e, in questo caso, si trattava di una scimmia. Salter si oppose alla libera divulgazione dell’immagine che riteneva essere sua a tutti gli effetti e fece nascere una vera e propria controversia giuridica in tema di proprietà intellettuale: se una scimmia fa una foto, di chi è la foto?

Nel corso degli anni la questione si è fatta sempre più complicata e sempre più assurda: la PETA, già nota per le sue battaglie provocatorie, ha fatto causa, a nome di Naruto, a Slater e anche a Blurb, una casa editrice che ha pubblicato il libro Wildlife Personalities, contenete, tra tante foto animali, anche quella di Naruto.

Sia Slater che Blurb hanno presentato un “motion for dismissal”: un documento che nel sistema legale statunitense serve a chi è accusato per spiegare che la causa nei suoi confronti è sbagliata e  basata su motivi inesistenti. In questo documento Slater scrisse, tra le altre cose, che “l’unico fatto rilevante in questa causa è che il querelante è una scimmia che fa causa per violazioni relative al copyright”. Secondo Salter, la PETA non può provare che il famoso selfie fu scattato proprio da Naruto e non da un’altra scimmia.

E, in effetti, i giudici gli hanno dato ragione, statuendo che i diritti sulla autoscatto siano suoi e non dell’animale.

Nonostante questo, però, l’organizzazione Peta e David Slater hanno trovato un accordo: il fotografo verserà all’organizzazione non-profit il 25% degli introiti derivanti dal proprio diritto d’autore sulla foto.

Emoticons e responsabilità precontrattuale.

Gli emoticon o emoji, anche conosciuti come faccine o smiley, sono riproduzioni stilizzate delle principali espressioni facciali. Il termine “emoticon” è un neologismo sincretico delle parole inglesi “emotion” e “icon”, utilizzato per indicare una piccola immagine che riproduce le nostre più comuni emozioni. Ormai però il gruppo originario di emoticon, composto dai tipici sorriso, risata, broncio, pianto, sbuffo e chi più ne ha più ne metta, si è allargato e comprende anche simboli e immagini di più vario genere. 
Questi disegnini, utilizzati prevalentemente su internet e nei messaggi per aggiungere componenti extra-verbali alla comunicazione scritta, sono diventati tanto comuni da costituire, secondo alcuni, un vero e proprio nuovo linguaggio di natura digitale.

Interessante, a questo proposito, è quel che è successo recentemente in Israele, dove un padrone di casa ha denunciato, con successo, una coppia che lo aveva fuorviato scrivendo un messaggio ricco di emoji. 
Più precisamente, il locatore, Yaniv Dahan, ha pubblicato un annuncio per l’affitto della propria casa su un sito dedicato al mercato immobiliare, dove la sfortunata coppia ha risposto, secondo il giudice, manifestando una dichiarazione di intenti. In effetti, dopo che i due giovani hanno risposto all’inserzione, il sig. Dahan ha eliminato il proprio annuncio ma la coppia non si è più fatta viva. La vicenda è stata allora portata all’attenzione dei giudici i quali, tra le prove utilizzate nei confronti degli imputati hanno preso in considerazione parte del testo scritto in risposta all’inserzione, contente immagini raffiguranti varie espressioni e oggetti, dal gesto “v” delle dita della mano ad una ballerina o una bottiglia stappata di champagne.
Il giudice ha deciso in favore di Dahan, ordinando alla coppia di pagare circa duemila dollari a titolo di risarcimento di danno per responsabilità precontrattuale. In particolare, il giudice ha motivato la sua decisione spiegando come le emoji utilizzate dalla coppia, tra cui la bottiglia e la ballerina, indicassero ottimismo e positività e, dunque, l’intenzione di concludere il contratto di locazione. Sebbene questo messaggio non costituisse un contratto vincolante tra le parti, secondo il giudice era sufficiente a far nascere un legittimo affidamento rispetto alla volontà di concluderne uno in futuro.

Sicuramente, e questa è esperienza quotidiana oramai comune ai più, gli emoticon sono simboli intuitivi e immediati, in quanto racchiudono un sentimento o un riferimento che sarebbe difficile da tradurre in parole, e che, soprattutto, richiederebbe più tempo per essere scritto per esteso con le lettere. 
Bisognerebbe però chiedersi se le simpatiche faccine oltre a semplificare la vita e a cancellare le ambiguità chiarendo un concetto, non abbiano sostituito una buona parte dei sentimenti, o meglio della volontà di manifestarli, rendendo la comunicazione virtuale più leggera e più incosciente e per questo meno rappresentativa della volontà del singolo.

Per ora questa sentenza israeliana è un caso isolato, ma sicuramente ci chiama a riflettere su questo tema e a fare attenzione a quel che scriviamo ;-)

L'inimitabile Vespa Italiana

Il Tribunale di Torino ha deciso: la forma della Vespa è un’opera di disegno industriale creativa ed artistica e, come tale, non può essere copiata. In questi termini si sono espressi i giudici pronunciando una sentenza storica che, per la prima volta, attribuisce l’esclusiva sulla commercializzazione in Italia all’intramontabile Vespa. Tutto iniziò nel 2013 al salone milanese delle due ruote EICMA, dove la Guardia di Finanza sequestrò undici scooter esposti e appartenenti a sette diverse compagnie, poiché riproduzioni della storico modello della Piaggio, la Vespa. In quell’occasione la Guardia di Finanza aveva rilevato che i modelli esposti violavano il diritto di esclusiva del Gruppo Piaggio costituito dal marchio tridimensionale registrato per proteggere la forma distintiva di Vespa. Una società coinvolta nel sequestro, la cinese Taizhou Zhongneng, aveva poi a sua volta citato Piaggio davanti al Tribunale di Torino per l’annullamento del marchio distintivo della Vespa e, dunque, per far accertare la conformità della linea di moto cinesi presentate all’EICMA, le “Ves”. Il gruppo italiano aveva però dapprima risposto facendo valere il diritto di forma su un modello specifico, la Vespa LX del 2005, e poi su tutte le linee prodotte dal 1948 ad oggi. Il Tribunale ha accolto le domande degli avvocati della Piaggio e ha stabilito non solo che la società cinese non potrà commercializzare gli scooter Ves, ma anche che tutte le declinazioni stilistiche della Vespa sono tutelate dall’articolo 2 della legge sul diritto d’autore. Questo fa sorgere, però, delle perplessità poiché, sebbene fosse scontata l’illegittimità di una linea di scooter identica a quella della Piaggio e per giunta titolata con il diminutivo di Vespa, appare più complicato inquadrare il campo di applicazione della tutela garantita dalla sentenza al modello Piaggio. Difatti, dire che tutte le diverse versioni di Vespa sono una proprietà intellettuale tutelata dal diritto d’autore significa vietare la commercializzazione di qualsiasi scooter, essendo la forma della Vespa e quella dello scooter la stessa cosa. Bisognerà dunque aspettare di vedere con quale rigidità questa pronuncia verrà attuata per capirne la reale portata.

Hendrix vs Hendrix

Experience Hendrix, società controllata da Janie Handrix, la quale detiene i diritti sull’intero patrimonio del più famoso fratello chitarrista Jimi, ha citato in giudizio Leon Hendrix e il suo socio Pitsicalis per violazione del diritto d’autore e del marchio. Leon e Pitsicalis avrebbero, infatti, utilizzato illecitamente alcuni dei tanti marchi di proprietà di Experience (la firma e le immagini del volto e del busto di Jimi) per commerciare sigarette e bevande alcoliche. Ma le battaglie per l’utilizzo commerciale del nome di Jimi sono risalenti nel tempo. Già nel 2015 la Corte distrettuale di Washington si era pronunciata sulla questione, proibendo a Leon e Pitsicalis di utilizzare le immagini del musicista. Inoltre, lo scorso gennaio 2017 la Corte distrettuale della Georgia ha dichiarato illegittimo da parte di Leon e Pitsicalis l’utilizzo delle parole “Jimi” e “Hendrix” sui loro siti web, social media e piattaforme online. Con la causa intentata il 16 marzo 2017 di fronte al tribunale di New York, la Experience Hendrix ha chiesto che venga dichiarato illegittimo anche l’utilizzo del nome “Purple Haze” nella vendita di prodotti a base di marijuna e di magliette. Purple Haze, infatti, è una canzone scritta nel 1967 da Jimi Handrix. Experience Hendrix ha chiesto un provvedimento ingiuntivo, l’eliminazione dal mercato dei beni in violazione dei diritti sul marchio registrato e un risarcimento dei danni. D’altra parte, Thomas Osinski, avvocato di Pitsicalis e Leon Hendrix, ha dichiarato che “Experience Hendrix conosce da tempo i prodotti dei miei clienti e conduce questa causa solo per offuscare e interferire con gli affari leciti e corretti di Leon che rispetta l’'eredità di Jimi Hendrix.” Osinski, in merito al contenuto della citazione, ha dichiarato che, sebbene le sentenze precedenti hanno escluso Leon Hendrix e la sua famiglia dal catalogo musicale di Jimi Hendrix, e hanno negato la possibilità di utilizzare i marchi creati da Experience Hendrix, niente impedisce a Leon e ai suoi soci di vendere altra merce legata a Hendrix. Chissà come il Tribunale risolverà questa lite familiare questa volta.

Una Mostra può essere tutelata come opera dell'ingegno?

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha statuito che un’esposizione può essere considerata un’opera dell’ingegno e come tale può essere tutelata dal diritto d’autore. Ai curatori di una mostra, dunque, possono essere riconosciuti diritti morali e patrimoniali. La realizzazione di una mostra può costituire espressione di un’idea creativa: da una parte si tutela il concept, cioè l’originalità del tema, dall’altra il project, cioè l’operazione di carattere creativo che precede l’allestimento vero e proprio. In questo senso, le esposizioni sono il frutto di un complesso e costoso processo di pianificazione e organizzazione, che merita di essere tutelato.

Il caso sottoposto alla Corte, riguardava un servizio televisivo messo in onda da RAI SAT, il quale, riproponendo una mostra, non ne rispettava i contenuti, violando così i diritti di sfruttamento economico riconosciuti dalla legge agli autori dell’opera. Fu dunque accertata la creatività della mostra, elemento necessario per la configurazione di un diritto d’autore. In altri casi, infatti, i giudici italiani avevano rigettato le richieste di accertamento e tutela di un diritto d’autore poiché non era stato provato in che modo originale fossero stati organizzati ed esposti gli oggetti di cui la mostra si componeva. In alcuni casi, inoltre, i giudici si sono spinti oltre e hanno allargato la tutela ad interi musei. È quello che è successo a Parigi, quando nel 2006 i giudici hanno riconosciuto la qualità di “opera d’ingegno” al museo del cinema Henri Langlois.

Sebbene la giurisprudenza, nazionale e non, sembri essere d’accordo nel concedere una tutela a mostre ed esposizioni, più difficile appare ricondurre questa fattispecie ad un istituto giuridico previsto dal legislatore. Nel nostro ordinamento, la tutela del diritto d’autore è garantita dalle previsioni della legge n. 633 del 1941, il quale comprende tutte le opere appartenenti “alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro, alla cinematografia,…,nonché le banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”. Con uno sforzo interpretativo, la mostra potrebbe essere considerata una banca dati, intesa quale “raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti..” (articolo 2, comma 9 l.633/41). O ancora, si potrebbe far rientrare l’esposizione artistica nella previsione dell’articolo 4 della legge 633 del 1941, il quale riconosce quali opere dell’ingegno anche le opere derivate, cioè “le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria o artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale”.

In entrambi i casi, condizione essenziale per il riconoscimento del diritto d’autore anche a mostre ed esposizioni è la realizzazione di un’opera intellettuale originale e creativa.

Mc Donald's accusata di violazione del Copyright dai Writers Americani.

Con il lancio del restyling  dei suoi ristoranti, Mc Donald’s sta cercando da un lato di avvicinarsi sempre di più ad un pubblico più giovane e dall’altro di difendersi dalla produzione indiscriminata di graffiti parodistici che diffamano l’immagine della nota azienda americana.

Con un clamoroso effetto boomerang, l’azienda americana però ha attirato soprattutto una serie di cause per violazione dei diritti da parte di graffitari che accusano la catena di fast food di averli copiati. L’ultima in ordine di tempo è quella depositata al tribunale federale di Los Angeles da Jean Berreau, ex compagna del writer Dash Snow e ora amministratrice dei suoi beni.

«Niente è più antitetico rispetto alla sua reputazione di strada da outsider del consumismo delle grandi aziende, di cui McDonald’s e il suo marketing sono la personificazione», si legge nella denuncia. Snow, che in realtà era il discendente di una famiglia di aristocratici e industriali di origine francesi.

Non è la prima volta che le nuove decorazioni vengono accusate di aver violato il copyright: lo scorso 25 marzo un altro writer, Norm, ha citato in giudizio l’azienda accusandola di aver replicato un suo celebre graffito realizzato a Brooklyn, in Bartlett Street («Norm sulla scala antincendio di Bartlett»). Norm, a differenza di Snow, non è contrario a un uso commerciale del suo lavoro, e ha lavorato spesso con grandi marchi. Nella denuncia afferma però che McDonald’s ha «deciso consapevolmente di rivestire i muri dei suoi ristoranti in giro per il mondo con il nome di Norm, la sua arte, firma, marchio commerciale» e ha «installato e continui a installare, senza permessi, copie non autorizzate, foto e / raffigurazioni del lavoro come rivestimento in decine di ristornati in Europa e Asia». Neanche un mese dopo il writer, che lavora prevalentemente a Los Angeles, ha rinunciato alla causa rifiutando ogni commento sulla vicenda: non è noto se abbia raggiunto un accordo di qualche tipo con la catena.

Usi Instagram?

Usi Instagram?

Instagram, così come altre applicazioni di condivisione di immagini, deve ricevere il consenso dai suoi utenti di poter legittimamente mostrare le loro immagini online, altrimenti violerebbe il loro diritto d’autore. Ovvio no? Forse, ma c’è dell’altro...

1.    L’utente garantisce una Licenza

“Instagram NON rivendica alcuna titolarità su testi, file, immagini, foto, video, suoni, opere musicali, opere d’autore, applicazioni o altri materiali (collettivamente definiti come “Contenuto”) che l’utente posta su o tramite Instagram. Mostrando o pubblicando (“postando”) qualsiasi Contenuto su Instagram, l’utente garantisce a Instagram una licenza universale, non esclusiva e libera da qualsiasi onere o diritto, di utilizzare, modificare, cancellare, aggiungere, produrre e mostrare pubblicamente, riprodurre e tradurre tale Contenuto, inclusa, senza limitazione alcuna, la distribuzione di tutto o parte del Sito in qualsiasi formato digitale tramite qualsiasi canale...”

Questo vuol dire che sei ancora il titolare delle tue fotografie? In teoria sì, ma loro possono usarle quando e come vogliono. Per il momento, usano le foto degli utenti per finalità apparentemente innocue, come post di blog e simili, cosicchè sembrerebbe vero il fatto che le possibilità che Instagram utilizzi il Contenuto degli utenti per scopi di lucro non siano così alte. Quella clausola, comunque, è ancora lì. Senza contare il fatto che se sei su Instagram, tu di fatto l’hai già accettata.

2.    A meno che il tuo account non sia impostato su “Privato”

“...solo il Contenuto non condiviso pubblicamente (“privato”) non verrà distribuito al di fuori di Instagram.”

Ottimo! Ma se invece usi Instagram per avere sempre più seguaci (“followers”)?

3.    Dichiarazione e garanzie...

“L’utente dichiara e garantisce che (i) è il titolare del Contenuto da lui postato su o tramite Instagram o comunque possiede il diritto di concedere la licenza di cui alla presente sezione, (ii) la pubblicazione e l’uso del suo Contenuto non viola diritti di privacy, pubblicità, d’autore, diritti contrattuali, di proprietà intellettuale o altri diritti di qualsiasi persona, e (iii) la pubblicazione del suo Contenuto sul Sito non costituisce violazione di alcun contratto tra lui e terzi. L’utente accetta di pagare qualsiasi royalty, tassa o altra somma di denaro dovuta a qualsiasi persona in ragione del Contenuto che pubblicizza su o tramite Instagram.”

In altre parole, non prendere alcuna foto da Internet per poi pubblicizzarla (“postarla”) su Instagram.

4.    Vuoi rileggere l’ultima frase di quella clausola? Ahia.

“L’utente accetta di pagare qualsiasi royalty, tassa o altra somma di denaro dovuta a qualsiasi persona in ragione del Contenuto che pubblicizza su o tramite Instagram.”

In altre parole, i gestori di Instagram hanno le spalle coperte. Loro non pagheranno un centesimo se sei nei guai. Questo è il motivo per il quale è meglio non essere citati in giudizio (a parte questo, per altre ovvie ragioni). Se la persona fisica o giuridica che ti cita decide di chiamare in causa anche Instagram (cosa che probabilmente farà visto che è il suo servizio che hai utilizzato), sulla base di questa clausola, potresti trovarti a pagare il tuo avvocato E l’avvocato di Instagram. Tutto ciò, in aggiunta al risarcimento dei danni che hai causato per aver infranto i diritti d’autore. Ahia? AHIA.

A parte questo... Instagram è grandioso!