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Distributed Ledger Technology, Not Fungible Tokens e Criptoattività, sistemi autarchici perfetti?

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Le criptoattività come Bitcoin sono una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente. (Direttiva UE 2018/843 del 30 maggio 2018, art. 1 (d). La definizione di “valuta virtuale” è stata recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 90/2017 (art. 1, comma 2, lett. qq).

Le criptoattività si realizzano attraverso i gettoni digitali (digital tokens) che operano attraverso un protocollo elettronico gestito in modo decentrato tramite una tecnologia denominata permissionless distributed ledger technology (DLT) detta anche blockchain.

Il Bitcoin (BTC) è la realizzazione del concetto di criptocurrency che fu descritto per la prima volta nel 1998 dall’ingegnere cinese Wei Dai, suggerendo l'idea di una nuova forma di denaro che usa la crittografia per controllare la sua creazione e le transazioni piuttosto che un'autorità centrale.

Nel sistema blockchain l’autorità istituzionale è sostituita da un complesso meccanismo di consenso collettivo tra gli operatori dei computer partecipanti, detti nodi. Esso si basa fondamentalmente su un sistema di incentivi che rende economicamente più vantaggioso ed efficiente per gli operatori di sistema seguire comportamenti corretti. Ogni utente finale opera attraverso una coppia di chiavi crittografiche: una privata, assimilabile ad un codice pin, che permette di utilizzare il wallet e, in particolare, di dare istruzioni di accredito a favore di un altro utente e l’altra pubblica (simile ad un codice iban), necessaria per la validazione di sistema al fine di perfezionare la transazione immessa.

Il Protocollo blockchain del Bitcoin - Aspetti generali del funzionamento della blockchain.

Il Bitcoin protocol è una delle declinazioni della distributed ledger technology che consente la creazione e il trasferimento delle criptovalute. Si tratta di un complesso programma informatico in grado di memorizzare in modo sicuro (crittografico) informazioni accessibili, gestibili e verificabili (anche a ritroso) in modalità condivisa da soggetti che operano on line. La DLT permette di creare registri pubblici digitali di archiviazione. A differenza di un normale database centrale con accesso condiviso tramite password, la DLT permette la registrazione cronologica inalterabile e l’aggiornamento decentrato del processo, senza necessità di ricorrere a una parte terza riconosciuta come garante o come custode affidabile per legge o per consuetudine.

Nello specifico, esistono tre tipi di DLT: protocolli DLT pubblici (o permissionless) a gestione interamente decentrata su internet, attraverso l’azione di soggetti indipendenti ed autonomi, operatori specializzati, detti miners, come nella DLT di Bitcoin; protocolli DLT privati, dove i nodi sono abilitati dal gestore del protocollo informatico “permissioned” (questa classe di DLT può operare anche senza i miners); protocolli ibridi, caratterizzati da un sistema di validazione decentrata tramite nodi (non tutti direttamente abilitati dal gestore), pur lasciando al soggetto che promuove il protocollo pieno controllo dello stesso.

Per decifrare i complessi codici alfanumerici di crittografia sono necessari computer che utilizzano specifici software e hardware capaci di fare milioni di calcoli al secondo. Nel protocollo Bitcoin, ad esempio, ogni volta che un miner risolve uno di questi problemi matematici si perfeziona la transazione ed un nuovo blocco viene completato. Con la soluzione del problema vengono liberati un certo numero di Bitcoin che si distribuiscono proporzionalmente in base alla potenza di calcolo riportata da ciascun miner. I miners, dunque, che sono una delle figure chiave del processo, si incaricano di estrarre (da qui il nome) nuovi Bitcoin e verificare la validità delle operazioni.

Oltre a blocchi e miners, come detto, ci sono i nodi. Si tratta di computer connessi alla rete Bitcoin che hanno il compito di conservare e distribuire una copia aggiornata di ciascun blocco. Nel caso in cui un nodo si perda o smetta di funzionare, non succederà nulla alla catena. Il resto degli anelli conservano tutte le informazioni e non vengono perse. Le informazioni vengono memorizzate in tutti i nodi e quando qualcosa viene inserito nella blockchain si conserva per sempre.

Attualmente il protocollo blockchain assegna circa 12,5 Bitcoin di nuova creazione all’operatore miner che trova per primo la soluzione del puzzle crittografico associato a un blocco di transazioni. Il protocollo blockchain è stato programmato per creare un numero predefinito massimo di bitcoin (21 milioni di unità), dato che ogni 210 mila blocchi il sistema dimezza il numero di Bitcoin assegnati ad ogni blocco di transazioni.

Il creatore del Bitcoin, il fantomatico Satoshi Nakamoto, ha previsto che questo sistema per poter essere efficiente e lucrativo a lungo avrebbe dovuto prevedere un limite. Così è nata l’idea di stabilire l’halving, un processo per cui la ricompensa che i miners ottengono dal mining, cioè i Bitcoin, si dimezza, appunto, ogni 4 anni una volta raggiunti 210.000 blocchi; considerato che il primo blocco di Bitcoin è stato generato nel gennaio del 2009, questo si traduce nel fatto che l'ultimo Bitcoin sarà estratto nel 2140 circa; ma già attorno al 2030 i nuovi BTC saranno molto pochi. Attualmente sono stati minati circa 19 milioni di BTC sui 21 milioni totali

Per tale ragione si sostiene che Bitcoin sia uno strumento deflattivo e – con gli economisti keynesiani in prima linea - che il BTC, mentre rimane un ottimo medium of exchange, non è uno stabile store of value. I keynesiani, inclini per definizione a stampare moneta, pongono l’accento della loro critica proprio sulla tendenza (deflattiva) del BTC che incentiverebbe individui e imprese ad accumulare denaro (hoarding) piuttosto che investirlo.

Le valute virtuali come il BTC sono frazionabili (in c.d. Satoshi) e possono fungere da sottostante per strumenti finanziari o essere usate per finanziare le operazioni c.d. di Initial Coin Offerings (ICOs). Il primo Stato che ha introdotto una legislazione specifica per l’intero settore delle criptoattività e le ICO è Malta.

La DLT, gli NFT e la blockchain nel diritto, nell’economia, nell’arte e nel commercio internazionale

Mentre esiste un aperto contrasto, forse insanabile ancora per qualche anno, tra i soggetti (anche istituzionali) che sostengono l’investimento in criptoattività e chi, invece, come le autorità europee ESMA, EIOPA, EBA e Banca d’Italia, ha sottolineato i rischi derivanti dall’uso di questi strumenti, vi è, invece, uniformità di vedute sul fatto che si debba separare il tema delle criptoattività (nelle diverse tipologie, criptovalute incluse) da quello della tecnologia sottostante: la distributed ledger technology. Questa tecnologia ha grandissime potenzialità soprattutto nell’ambito dell’archiviazione crittografica, dell’uso degli smart contracts e di alcuni tipi di gettoni digitali.

Vi è altresì accordo sul fatto che lo sviluppo tecnologico legato alla DLT apra scenari di vasta portata per i processi di intermediazione e di organizzazione dei mercati su larga scala.

I payment tokens, ad esempio, sono rappresentazioni digitali di valore emessi da una entità giuridica a fronte di una unità di moneta tradizionale;

gli utility tokens, rappresentano diritti amministrativi non trasferibili e non negoziabili;

i security tokens, sono trasferibili e negoziabili e rappresentano diritti quali: diritti di voto, diritti su flussi di cassa, diritti di proprietà su attività finanziarie o quote su beni reali standardizzabili (commodities) (ESMA, 2019).

I Not Fungible Tokens (NFT), tipi particolari di token che rappresentano qualcosa di unico e non replicabile né modificabile. Si tratta di un nuovo filone dell'arte e del collezionismo che nei primi mesi dell'anno è letteralmente esploso. Solo lo scorso mese si sono registrate transazioni per 400 milioni di dollari (peraltro spesso regolate in criptovalute).

Si pensi, ad esempio, che pochi giorni fa l'opera di un artista che si fa chiamare Beeple intitolata "Everydays, the first 5000 days", è andata all’asta da Christie’s per la cifra monstre di 60.250.000 dollari (!). L’opera digitale è una composizione di 5000 file che l'artista ha aggiunto ogni giorno per cinquemila giorni a partire dal 1° maggio del 2007.

Nel digitale è normale riprodurre un file ma l’opera di Beeple è unica perchè è stata autenticata con la tecnologia blockchain. Il 16 febbraio scorso l'artista ha registrato un file di quell'opera tramite blockchain ottenendo un certificato di autenticità che la rende unica per sempre. Non fungibile.

Così come la blockchain è nata per superare la criticità del c.d. double spending (una moneta del tutto virtuale senza un sistema come quello che regola Bitcoin potrebbe essere replicata all’infinito, perdendo così la sua funzione che deriva proprio dal numero limitato) la crypto-art nasce per valorizzare opere che altrimenti sarebbero plagiate e diffuse perdendo inevitabilmente valore.

E’ dunque intuitiva la prorompente applicazione futura della DLT e dei NFT in molti settori del diritto e dell’economia in funzione della certezza, dell’autenticità e dell’originalità di un determinato bene, mobile o immobile.

La DLT permette la registrazione cronologica inalterabile e l’aggiornamento decentrato dei processi, senza necessità di ricorrere a una parte terza garante e/o affidabile come, ad esempio, un pubblico ufficiale, un ente pubblico, una compagnia di assicurazione o un trust.

Ad esempio, si può consentire a un terzo di approvare o rifiutare una transazione, in caso di disaccordo tra le parti, senza che questi debba avere il controllo materiale sul loro denaro e così migliorando in termini di efficienza, tempi e costi, istituti come l’escrow account ovvero schemi contrattuali utilizzati per assicurare crediti e diritti, con applicazione dirompente in tutte le tipologie del commercio internazionale e degli scambi su larga scala.

Internet Service Provider - luci e ombre della giurisprudenza in attesa del recepimento della Direttiva 2019/790

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Con due recenti sentenze del 20 e 22 gennaio 2021, la Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Roma ha condannato in primo grado due internet service providers, Veoh e Dailymotion, per aver trasmesso sulle proprie piattaforme programmi televisivi di titolarità RTI (Reti Televisive Italiane) al risarcimento del danno per violazione del diritto d’autore per una cifra complessiva superiore a 25 milioni di euro.

Si trattava la trasmissione non autorizzata di filmati e spezzoni di alcuni dei programmi più famosi del palinsesto R.T.I., quali “Uomini e Donne”, “C’è posta per te ”, “Casa Vianello”, “Melaverde”.

Il Tribunale ha accolto la tesi di R.T.I., che, in quanto produttore ed emittente dei programmi sopra elencati, sosteneva che Veoh e Dailymotion avessero violato il proprio diritto esclusivo connesso al diritto d’autore di riproduzione e di sfruttamento delle proprie realizzazione (artt. 78-ter e 79 L. n. 633/1941).

La questione giuridica che costituisce il vero cuore della vicenda riguarda il grado di responsabilità attribuibile agli internet service provider per gli illeciti commessi a mezzo internet dagli utenti delle piattaforme: Veoh e Dailymotion sostenevano, infatti, di poter essere qualificati come “hosting providers” e di svolgere un ruolo meramente passivo rispetto ai contenuti condivisi dagli utenti, che, accettando la policy di utilizzo della piattaforma, si impegnano a non porre in essere violazioni dei diritti dei terzi e se ne assumono ogni responsabilità.

A questo proposito, la Direttiva europea “E-Commerce” prevede che l’hosting provider non possa essere ritenuto responsabile per i materiali inseriti dagli utenti della piattaforma a condizione che non sia a conoscenza della loro illiceità e, appena ne sia portato a conoscenza, rimuova immediatamente le informazioni e i contenuti lesivi dei diritti dei terzi (art. 14 Dir. 2000/31/CE).

Il Tribunale ha escluso la natura meramente passiva dell’attività di hosting di Veoh e Dailymotion dando rilievo al fatto che entrambi i portali indicizzassero i contenuti caricati dagli utenti creando dei canali tematici e associando ai programmi numerose inserzioni pubblicitarie; queste attività non sono state ritenute compatibili con un ruolo meramente passivo dei gestori delle piattaforme che mettano a disposizione degli utenti  un servizio senza intervenire, dal momento che, secondo il Tribunale, gli amministratori del sito tramite questo lavoro di catalogazione avrebbero preso necessariamente conoscenza di contenuti dei video catalogati, compresa la circostanza che trattasi di opere protette dal diritto d’autore.

Questa impostazione è compatibile con l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia rispetto al ruolo delle piattaforme di e-commerce, che ha affermato esserci responsabilità del prestatore di servizi di hosting che abbia svolto un’attività di gestione dei contenuti di qualsiasi natura, come ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e promuoverle.  

In questo senso, l’art. 17 della Direttiva sul diritto d'autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale (Direttiva (UE) 2019/790), di prossimo recepimento in Italia e non ancora in vigore, prevede ora una responsabilità diretta del prestatore di servizi di condivisione per le opere in violazione del diritto d’autore caricati dai propri utenti e pone in capo alle piattaforme di videosharing un onere di diligenza più stringente. La norma europea impone ora alle piattaforme che intendano andare esenti da responsabilità o di negoziare anticipatamente licenze collettive con i titolari dei diritti d’autore o rispettare determinati requisiti cumulativi che consistono nell’aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti, per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto informazioni e dimostrare di aver agito tempestivamente a seguito di segnalazione per disabilitare l’accesso o rimuovere dal sito web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e per impedirne il caricamento in futuro.

Tornando alle sentenze, anche se si volesse sostenere un ruolo meramente passivo di Veoh e Dailymotion, secondo il Tribunale non potrebbe applicarsi in ogni caso nei loro confronti l’esimente di responsabilità prevista dall’art. 14 della Direttiva dal momento che RTI aveva precedentemente segnalato loro quali contenuti rimuovere, ma le piattaforme non avevano provveduto tempestivamente a rimuovere i contenuti illeciti segnalati.

Sotto questo profilo, le due sentenze del Tribunale di Roma, che hanno ritenuto fosse sufficiente per RTI aver indicato ai provider il nome e il titolo del programma e non l’URL (Uniform Resource Locator, ovvero una sequenza di caratteri che identifica univocamente l'indirizzo di una risorsa) appare non in linea né con l’orientamento del legislatore UE, che ha stabilito che le informazioni fornite dal titolare del diritto d’autore al provider per identificare i contenuti devono essere  pertinenti e necessarie, né con la giurisprudenza nazionale, che ha stabilito che la mancata indicazione dell’URL non fosse  sufficiente a far scaturire l’obbligo del provider di rimuovere i contenuti in violazione (così Tr. Torino, Dailymotion v. Deltatv Programs, sent. 17 novembre 2017, ove si legge che la mancata indicazione dell’URL equivale a: “...pretendere dall’ISP un’attività di “scandagliamento” dei contenuti dei materiali già caricati sulla piattaforma prima della segnalazione con specifico url, va ingiustificatamente oltre il punto di equilibro, sopra individuato, tra i contrapposti ruoli e interessi dell’hosting provider e del titolare dei diritti d’autore che lamenti la violazione dei suoi diritti”).

Tribunale di Roma, sentenze 20 - 22 gennaio 2021

Il singolo di Prince “The most beautiful girl in the world”: confermato anche il risarcimento del danno morale per il plagio dell’opera.

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La vicenda giudiziaria non è recente, anzi (il tutto ha inizio nel 1995..), ma è di pochi giorni fa l’ultima parola della Corte di Cassazione in merito al se ed al quanto del risarcimento dovuto ai signori Bruno Bergonzi e Michele Vicino da parte degli eredi della celebre pop star americana, Prince Rogers Nelson, meglio noto come Prince, per avere quest’ultimo con il noto brano del “The most beautiful girl in the world” violato i diritti d’autore dei primi.

Il 25 gennaio 2021 infatti, la Corte di Cassazione si è espressa sul ricorso presentato dagli eredi di Prince (nel frattempo deceduto) avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 2018 che riconosceva ai due autori italiani, oltre risarcimento dei danni economici (in Euro 956.608,00…), anche il ristoro morale, seppur nella minor cifra di Euro 40.000,00, per la “frustrazione artistica” sofferta dagli stessi autori in conseguenza del plagio della loro opera originale.

Ma facciamo un passo indietro: nel 1995 Bruno Bergonzi e Michele Vicino insieme a Edizioni Chappell s.r.l. - rispettivamente autori e cessionaria dei diritti di sfruttamento della canzone “Takin' me to paradise” - agivano avanti al Tribunale di Roma per vedere accertato il plagio della suddetta opera musicale da parte Prince Rogers Nelson, di Controversy Inc. e di Fortissimo Gruppo Editoriale s.r.I., rispettivamente autore e cessionarie dei diritti di utilizzazione economica della canzone diffusa con il titolo “The most beautiful girl in the world”, con conseguente condanna al risarcimento dei danni economici e morali.

Il 30 gennaio 2003, il Tribunale di Roma rigettava la domanda di Bruno Bergonzi, Michele Vicino e di Edizioni Chappell s.r.l..

Tuttavia (anche se dopo 7 anni..) la pronuncia  del Tribunale era riformata in appello: la Corte di Roma accertava infatti il plagio, inibiva la diffusione del brano nel territorio dello Stato italiano e condannava in solido Prince e Controversy Inc. al risarcimento del danno liquidato nella misura di Euro 956.608,00 a favore di Bergonzi e Vicino; Fortissimo Gruppo Editoriale era invece condannata al risarcimento nella minor somma di euro 6.888,40; nella prima sentenza la Corte d’Appello rigettava, tuttavia, la domanda di risarcimento del danno per violazione del diritto morale d'autore ritenendo insufficiente l’allegazione delle prove a supporto di tale danno da parte degli attori.

Tale pronuncia veniva impugnata e con sentenza del 29 maggio 2015, n.11225, la Cassazione si pronunciava sia con riguardo all’estensione degli effetti esplicati dalla sentenza di condanna limitatamente al territorio italiano sia per quanto concerne il mancato riconoscimento della violazione del diritto morale d’autore, ritenendo che quest’ultimo avrebbe invece dovuto trovare spazio e riconoscimento.

In particolare, la Corte di Cassazione riteneva apodittica la motivazione con cui la Corte di Appello di Roma valutava insufficienti le prove poste a sostegno del patito danno morale dagli autori nei loro atti difensivi, ribadendo il noto principio, applicabile quindi anche alla violazione del diritto morale d’autore, secondo cui in caso di accertata violazione dello stesso, il danno sofferto dall’autore deve considerarsi in re ipsa e come tale deve essere dimostrato solo nella sua estensione, senza che incomba all’attore altra prova. È sufficiente, secondo la Cassazione, a fondare la domanda volta alla condanna al risarcimento del diritto morale, la “frustrazione artistica” lamentata e subita dagli autori a fronte del plagio.

Ebbene nel 2018, Corte di appello di Roma pronunciava sentenza con cui inibiva all'eredità giacente di Prince e a Controversy ogni ulteriore riproduzione del brano “The most beautiful girl in the world” e, sulla base del rinvio della Cassazione, li condannava, in via equitativa, al pagamento della somma di Euro 40.000,00 ciascuno, oltre interessi a titolo di risarcimento morale.

Pareva dover cessare così la vicenda, ma gli eredi della celebre pop – star hanno nuovamente impugnato la decisione lamentando – per quanto qui di interesse -  l’errata applicazione delle norme sul diritto morale d’autore: tale ultimo ricorso è stato interamente rigettato dalla Corte di Cassazione con la recente pronuncia la quale ha confermato la correttezza del’iter argomentativo seguita dalla Corte di Appello nella liquidazione del danno per violazione del diritto morale d’autore.

La sentenza, che chiude definitivamente la vicenda di The Most Beautiful girl in the world, riguarda non solo, la già ampiamente riconosciuta facoltà del giudice di merito di liquidare in via equitativa il danno, anche morale, conseguente alla violazione del diritto d’autore, ma soprattutto il sicuro collegamento che può e deve sussistere – dice la Corte - fra l’entità del danno morale d’autore (e del relativo risarcimento) e le dimensioni spazio-temporali della condotta plagiaria, e quindi, in definitiva, la diffusione e il successo dell’opera in contraffazione.
La limitazione degli effetti della pronuncia del giudice italiano al solo territorio italiano, anziché a tutti i paesi del mondo dove il brano in contraffazione era stato diffuso – ritiene la Corte di Cassazione del 2015 – essere corretto: non esiste infatti, in materia di diritto d’autore nel caso di specie, alcuna norma che consenta al giudice nazionale di estendere gli effetti della sua pronuncia al di là dei confini nazionali dello stato in cui la decisione è assunta. Tuttavia, ritiene la Corte, la pronuncia del giudice di appello è errata e merita di essere riformulata, nella parte in cui “esclude implicitamente che la stessa pronuncia possa avere esecuzione anche in altri Stati esteri previa delibazione della stessa da parte dei giudici o delle autorità competenti”.

La pronuncia del 2015 inoltre ribadisce il noto principio in materia di diritto d’autore per cui il danno derivante dalla violazione del diritto d’autore è in re ipsa senza che incomba all’attore altra prova se non quella della sua estensione.

Può un’opera anonima essere tutelata come marchio d’impresa?

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Secondo una recente decisione dell’EUIPO (Ufficio per la proprietà intellettuale dell’Unione Europea, 14 settembre 2020) sembrerebbe di no: a dimostrarlo è l’accoglimento da parte dell’Ufficio della richiesta di cancellazione presentata dalla società Full Colour Black Limited contro il marchio “Flower thrower” depositato nel 2014 dalla Pest Control Office Limited, società di diritto inglese sorta fra l’altro con il preciso intento di tutelare le opere dell’artista anonimo Banksi.

Il tutto ha origine quando, nel 2014, la Pest Control Office Limited decide di registrare come marchio figurativo la celebre opera “Il lanciatore di fiori” (“Flower thrower”).

La registrazione per il marchio in questione è stata richiesta per una vastissima serie di prodotti tra cui pitture, vernici, lacche; dischi, nastri; cartoleria; fotografie; manifesti; libri; pennelli; borse, valigette, portafogli, portachiavi, prodotti tessili, abbigliamento e altri ancora.

In conformità con la sua linea di azione, Banksi ha registrato l’opera presso l’EUIPO restando nell’anonimato e servendosi pertanto della società che ne cura i diritti, la Pest Control Office Limited.

Nel 2018, tuttavia la società inglese Full Colour Black Limited attiva nel settore della produzione di cartoline e altri articoli affini, propone avanti all’EUIPO una azione di nullità del citato marchio, affermando in particolare che lo stesso sarebbe stato depositato dall’artista, per mezzo della sua società, in malafede, al solo fine di poterne limitare l’utilizzo da parte di soggetti terzi e senza per contro un reale intento di usare quel marchio sui prodotti e servizi rivendicati

Con la decisione del 14 settembre 2020, l’EUIPO ha pienamente accolto tale domanda dichiarando nullo pertanto il marchio del celebre artista.

L’EUIPO secondo un iter argomentativo lineare ha solamente negato che tale immagine, quella del “Lanciatore di Fiori” che rappresenta l’opera di Banksy, possa validamente, nel caso di specie, costituire un marchio di impresa e ciò in quanto manca all’origine il fine commerciale che deve caratterizzare il marchio, la cui finalità primaria è quella di indicatore d’origine e capacità distintiva sul mercato.

In assenza di tali finalità, pertanto, deve ritenersi nulla la domanda di marchio per mala fede, il che secondo quanto stabilito dal Regolamento comunitario sui marchi di impresa, giustifica la cancellazione dal registro dei marchi depositati in tale forma.

Attenzione: ciò non significa affatto che con tale decisione vengano meno i diritti d’autore sull’opera (per quanto possa essere bizzarro parlare di diritto d’autore rispetto ad un’opera il cui autore è anonimo per sua scelta.

Marchio e diritto d’autore restano, come anche precisato dall’EUIPO in alcuni passaggi della Decisione, quanto meno in linea di principio, diritti di proprietà industriale / intellettuale distinti ed eventualmente cumulabili rispetto un determinato oggetto.





Disney e la tutela IP dei suoi personaggi: da Topolino ai remake dei “classici”

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Con una conoscenza del marchio che supera il 90% della popolazione mondiale, Mickey Mouse è ancora oggi il personaggio animato più conosciuto a livello internazionale da adulti e bambini.

A quasi 100 anni dalla sua creazione, Topolino incarna l’essenza dell’azienda Disney e tra merchandising, remake, giochi, accessori, parchi a tema e altri servizi il suo sfruttamento vale ancora miliardi di dollari.

L’amore di Walt Disney per Mickey Mouse - che è anche stato il suo principale asset aziendale - l’ha portato a studiare efficaci strategie al fine di estendere i diritti di proprietà intellettuale del suo personaggio e da consentirgli di continuare a sfruttare la sua immagine in modo esclusivo.

Topolino e la tutela del Copyright negli USA

La prima legge che tutelava il diritto d’autore negli USA fu il Copyright Act del 1790 che garantiva una protezione delle opere creative per 28 anni.

Con due successivi provvedimenti legislativi il Congresso aveva ampliato la tutela e il periodo di protezione era stato esteso a 42 anni con l’emendamento del 1831 e a 56 con quello del 1909.

Nell’autunno del 1928 Disney presentò al pubblico il corto animato “Steamboat Willie” in cui compare per la prima volta il personaggio di Mickey Mouse. Il corto – in quanto opera intellettuale - ricadeva sotto la protezione prevista dal Copyright Act del 1909 e garantiva una protezione della durata di 56 anni. Il personaggio di Mickey Mouse sarebbe quindi stato tutelato fino al 1984 per poi cadere in pubblico dominio. Per evitare che ciò accadesse, Disney, già all’inizio degli anni ’70, cominciò ad esercitare pressioni sul Congresso degli USA affinché modificasse la legislazione vigente in materia di diritto d’autore. Nel 1976 la normativa venne ampiamente emendata ed avvicinata agli standard europei garantendo una protezione da un minimo di 56 anni ad un massimo di 75. Disney era così riuscito ad estendere la protezione per il suo personaggio di quasi un ventennio.

Nonostante questo indiscusso successo, la battaglia di Disney per continuare a sfruttare in esclusiva i suoi personaggi non si arrestò. Già all’inizio degli anni ’90 l’azienda cominciò ad esercitare nuove attività di lobbying per l’estensione del copyright: questa volta non era in gioco solo il copyright di Mickey Mouse ma anche quello di Minnie, Donald Duck, Daisy, Goofy e Pluto che sarebbero caduti in pubblico dominio entro la fine del primo decennio degli anni 2000.

Alla fine degli anni ’90, il Congresso ha presentato un’ulteriore proposta per l’estensione della durata della protezione garantita dal Copyright Act.

La proposta prevedeva l’estensione del copyright per le aziende da 75 a 95 anni.

Topolino e la sua banda: nuovo design per l’estensione della protezione e registrazione del marchio

Nel 1998 la riforma è stata approvata ed il Copyright di Topolino e i suoi colleghi è stato prorogato per altri 20 anni.

La data prevista al momento per la scadenza del copyright di Mickey Mouse è il 2024.

Ciò che però è necessario notare è che il Copyright in scadenza è solo quello di Mickey Mouse con il design della prima versione di Topolino, vale a dire del Topolino così come è stato rappresentato in “Steamboat Willie” e non quello delle versioni successive.

Nei decenni i disegnatori Disney si sono ben preoccupati infatti di modificare le proporzioni della sua fisionomia e di aggiungere accessori al personaggio (ad esempio i guanti gialli, diversi colori nell’abbigliamento), di modernizzare il tratto e di renderlo più in linea con il mutato gusto del tempo.

Oggi i bambini riconoscono Mickey Mouse nella sua attuale versione o in quelle appena precedenti ma faranno fatica ad identificare lo stesso personaggio nel Topolino di “Steamboat Willie”.

Oltre alle considerazioni fatte sul copyright di Mickey Mouse è bene ricordare che la mascotte è protetta anche come marchio registrato e garantisce a Disney la possibilità di utilizzarlo in maniera esclusiva e illimitata in tutto il mondo con il solo onere di provvedere al suo rinnovo.

Il remake dei “Classici” Disney

A partire dal 2010 Disney ha riproposto i suoi “Classici” (che sono adattamenti di opere di altri autori i cui diritti sono in molti casi scaduti) presentando delle versioni più moderne dei cartoni animati più amati di sempre.

E’ ragionevole ipotizzare che Disney, riproponendo delle nuove versioni dei classici, volesse raggiungere molteplici obiettivi. Tra questi vi è sicuramente quello di attrarre nelle sale cinematografiche un vasto pubblico con la certezza di incontrare il gusto di un folto gruppo di appassionati – composto da adulti e bambini – che già conoscevano la storia ed erano fan dei protagonisti. Inoltre, con l’avvicinarsi della scadenza del copyright – così come era successo con Mickey Mouse – il remake era la perfetta occasione per modernizzare il design di molti personaggi e rivisitarli in chiave moderna (in alcuni casi i disegni animati sono stati sostituiti da attori in carne ed essa). Così facendo Disney ha avuto la possibilità di sostituire le vecchie produzioni con quelle nuove e di poter godere di un nuovo ed intero periodo di protezione per le sue opere creative. In questo modo l’azienda ha anche avuto la possibilità di continuare ad utilizzare i suoi personaggi per il vastissimo assortimento di merchandising o dare in licenza i diritti di sfruttamento.

La strategia del “remake” ha inoltre permesso a Disney di rimuovere dai classici le parti di sceneggiatura non più in linea con i tempi (ad esempio battute sessiste sul ruolo della donna nel contesto familiare, modelli di famiglia in contrasto con l’evoluzione della società, scene in cui i protagonisti erano sotto l’effetto di sostanze dannose).

La storia di Disney dimostra come tutelare gli asset di proprietà intellettuale di un’azienda sia a fondamento di un successo planetario e che dura da quasi un secolo. Strutturare un’efficace tutela IP deve pertanto essere alla base della strategia aziendale di ogni realtà che vuole imporsi come leader nel suo settore per gli anni avvenire.

Fotografia e Moda. Clovers ottiene una pronuncia favorevole dal Tribunale di Milano in materia di indebito utilizzo di una fotografia.


Uno degli abiti della collezione.

Uno degli abiti della collezione.

È di pochi giorni fa la sentenza con cui il Tribunale di Milano ha condannato una nota società di moda italiana (la Antonio Marras Srl) al risarcimento del danno in favore del fotografo statunitense, Daniel J. Cox, per la riproduzione non autorizzata di una fotografia di quest’ultimo su dei capi di abbigliamento.

Daniel J Cox è tra i più affermati fotografi naturalistici nonché autore di diverse copertine della rivista National Geographic. Negli anni passati, il fotografo ha realizzato una nota fotografia raffigurante un lupo ululante sotto una bufera di neve.

La controversia sorge quando la società di moda, convenuta poi nel giudizio avanti al tribunale di Milano, utilizza senza consenso dell’autore tale immagine per sviluppare la sua collezione di moda.

L’opera fotografica di Daniel J, Cox. Copyright Daniel J. Cox.

L’opera fotografica di Daniel J, Cox. Copyright Daniel J. Cox.

L’immagine oggetto della controversia, che il Tribunale ha riconosciuto quale opera artistica tutelabile ai sensi della Legge sul Diritto d’Autore risultava in particolare chiaramente riprodotta su una serie di capi donna, distribuiti e commercializzati nel mondo e su alcune piattaforme d’abbigliamento on line, tra le quali quella gestita dall’altra convenuta.

Esaurita senza successo la fase stragiudiziale volta alla composizione della lite, il fotografo ha invocato la tutela inibitoria contro l’utilizzo non autorizzato dell’immagine nonché per il risarcimento del danno quantificato su istanza dello stesso nel cd. prezzo del consenso.

Il Collegio ha ritenuto che l’immagine stampata sul capo d’abbigliamento realizzato dalla convenuta, oltre a coincidere con lo scatto fotografico dell’attore, possedesse quel carattere artistico e creativo necessario per accedere alla tutela “rafforzata” prevista dalla Legge sul diritto d’autore.

Come noto, la legge italiana sul diritto d’autore attribuisce alle fotografie un duplice livello di protezione, distinguendo tra opere fotografiche (o fotografie artistiche) e fotografie semplici.

Il discrimine – non sempre agevole nella pratica - viene tracciato in prima istanza dalla lettera della legge: gli articoli da 87 ss lda definiscono come fotografie semplici “le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche” e riconoscono alle stesse tutela in quanto oggetto di un cd. “diritto connesso”.

Manca per converso, un’espressa definizione legislativa di opera fotografica (se non per quel che si può ricavare “a contrario” dalla definizione precedente) la quale è invece demandata al valutazione “pratica” del giudice sulla base di una serie di indici.

Le fotografie artistiche dunque accedono alla tutela autorale e sono protette fino a 70 dopo la morte del loro autore, laddove invece, le fotografie semplici, godono di una tutela limitata (20 anni dalla data di produzione) ed al fotografo spetta unicamente un equo compenso in caso di utilizzo illegittimo.

Un primo e fondamentale snodo della decisione riguarda il riconoscimento del valore artistico della fotografia: a parere del Collegio giudicante nel caso di specie, tale riconoscimento risiede “nella capacità creativa dell’autore, vale a dire nella sua impronta personale, nella scelta e studio del soggetto da rappresentare (Cass. Civ. 21 gennaio 2000, n. 8425), così come nel momento esecutivo di realizzazione e rielaborazione dello scatto, tali da suscitare suggestioni che trascendono il comune aspetto della realtà rappresentata (Trib. Roma, Sez. Spec. Impresa, 2 maggio 2011; App. Milano, 7 novembre 2000)”.

La scelta di ritrarre l’animale nel suo ambiente naturale ed in condizioni climatiche avverse rende lo scatto “frutto di studio e di attenta analisi fotografica da parte dell’autore” e contribuisce al riconoscimento del valore artistico della stessa secondo il Tribunale.

È anche la tecnica che viene in questo caso in rilievo al fine del corretto inquadramento dell’immagine nell’ambito delle opere fotografiche tutelate e tutelabili: “una sapiente sfocatura dell’ambiente circostante, esaltando così l’espressione del soggetto rappresentatoed evocando, in questo modo, peculiari suggestioni nell’osservatore tali da travalicare la mera rappresentazione grafica dell’animale (…) “un sapiente uso del chiaroscuro e l’utilizzo, con finalità creative, dei giochi di luce”.

A fare propendere il Collegio per la valutazione in senso artistico dell’opera vi sono in via “ausiliaria” anche lo specifico riconoscimento autorale in territorio statunitense dell’artista e la collocazione dell’immagine all’interno di un’opera monografica alla quale è stata data dignità di pubblicazione e stampa.

Una volta quindi accertata la natura artistica dell’opera, l’utilizzo da parte della società convenuta a fini commerciali della fotografia, mediante la sua collocazione su un capo di abbigliamento inserito nella collezione donna, in assenza di autorizzazione alcuna da parte dell’autore, “costituisce aperta violazione delle privative autorali, cui consegue il diritto del fotografo ad ottenere il risarcimento del danno”.

È interessante notare come il Tribunale rigetti le eccezioni sollevate dal convenuto circa la presunta legittimità dell’utilizzo dello scatto, essendo lo stesso reperibile sul motore di ricerca Google.

“Ed invero” – precisa il Collegio – “la mera disponibilità sul web di una fotografia non costituisce certamente presunzione di assenza di privative autorali, gravando semmai sull’internauta l’onere di accertare l’esistenza, o meno, di diritti in capo a soggetti terzi”.

Il passaggio appare fondamentale nell’era di massima espansione della comunicazione e della promozione da parte delle aziende tramite social network che fanno massivo uso delle immagini.

Altro aspetto che ha rivestito una certa importanza, è stato quello afferente la “responsabilità del distributore” della merce contraffatta. A tal proposito, infatti, il Collegio ha rilevato la sussistenza della culpa in vigilando dello stesso in quanto quest’ultimo non ha fornito alcuna dimostrazione di aver ottenuto, da parte della Antonio Marras specifica attestazione circa la piena titolarità dei diritti di sfruttamento commerciale dei capi d’abbigliamento e delle immagini sugli stessi riprodotte.

Il Collegio, in conclusione, ha deciso che l’opera del fotografo Daniel J. Cox debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia, condannando le convenute, in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore dell’attore e disponendo la pubblicazione del dispositivo della sentenza a cura e a spese delle parti convenute sul periodico Vanity Fair.

Attraverso questa pronuncia il Tribunale di Milano ha affrontato una pluralità di questioni oggetto di continui dibattiti tra gli esperti del mondo della proprietà intellettuale. Rimane vivido, dunque, l’auspicio di continuare ad ottenere sempre più risposte.

Human Feelings as Drugs. La Corte d'appello di Milano ribalta la decisione resa in primo grado.

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Recentemente la Corte di Appello ha ribaltato un giudizio reso nel settembre del 2018 dal Tribunale di Milano di cui c’eravamo occupati in questo blog - https://clovers.law/it/blog/2019/1/31/la-tutela-delle-fotografie-tra-opere-artistiche-e-semplici .

La vicenda traeva spunto dalla presunta violazione del diritto d’autore di una fotografia denominata “Human Feelings as Drugs”, consistente nella realizzazione di fotografie, stampe e poster riproducenti fialette di medicinali di svariati colori, recanti la scritta “empathy”, “hope”, “love”, “peace” e “joy” con riportate le frasi espressive del relativo sentimento o dell’emozione.

Nel progetto, l’artista Valerio Loi intendeva realizzare l’idea di assumere “sentimenti come medicine”, in modo da “permettere al paziente un istantaneo risveglio della percezione e un reintegro all’interno del flusso vitale delle emozioni”.

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 L’attore lamentava l’illecita riproduzione da parte della società convenuta, Queriot  de la Bougainville S.r.l.,  di una serie di ciondoli -abbinati a collane e braccialetti – che avrebbero riprodotto le proprie fialette, con identiche denominazioni dei sentimenti, accompagnate dalle stesse frasi illustrative. Ha dunque invocato l’inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza.

 Il Tribunale di primo grado aveva ribadito che in materia di opere fotografiche, il carattere artistico presuppone l’esistenza di un atto creativo in quanto espressione di un’attività intellettuale preminente rispetto alla mera tecnica materiale. La modalità di riproduzione del fotografo deve trasmettere cioè un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla rappresentazione oggettiva cristallizzata, rendendo cioè una soggettiva interpretazione idonea a distinguere un’opera tra altre analoghe aventi il medesimo oggetto. Il requisito della creatività dell’opera fotografica sussiste ogniqualvolta l’autore non si sia limitato ad una riproduzione della realtà, ma abbia inserito nello scatto la propria fantasia, il proprio gusto, la propria sensibilità, così da trasmettere le proprie emozioni.

 In materia di opere fotografiche, la natura artistica della riproduzione non può desumersi dalla notorietà del soggetto o dell’oggetto che è ritratto, giacché il valore dell’opera artistica si apprezza in virtù di canoni di natura formale – che esprimano in modo assolutamente caratteristico ed individualizzante la personalità dell’autore – dovendo invece il relativo giudizio prescindere dall’oggetto o dal soggetto in sé riprodotto.

 Nel caso in esame il Tribunale aveva escluso la natura artistica delle immagini litigiose essendo impossibile ravvisarne proprio quegli aspetti di originalità e creatività che risultano indispensabili per riconoscere la piena protezione ex art. 2 l. aut. A dire del Tribunale l’attore non ha indicato precise inquadrature ovvero un'attenta selezione delle luci o ancora particolari dosaggi di toni chiari e scuri che il Collegio possa apprezzare. Non sembrano neppure qui rivenirsi quei peculiari indici che identifichino quell’impronta personale e peculiare del fotografo ovvero quella capacità di intervenire sul soggetto in modo tale da evocare suggestioni, che appunto, valgono a distinguere un’opera fotografica da una fotografia semplice.

Sulla scorta di tale decisione, Valerio Loi, al fine di vedersi dichiarare l’artisticità della sua opera ed ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti per l’abusivo sfruttamento della stessa  ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado ottenendo la totale riforma della stessa.

In merito alla sussistenza del diritto d’autore per opera fotografica in capo a Valerio Loi, i giudici della Corte d’Appello di Milano, contrariamente a quanto stabilito dal Collegio in primo grado, hanno ritenuto che: “la presenza del carattere creativo o meno nell’opera fotografica debba essere verificata, valutando unitariamente il soggetto, riprodotto nella fotografia, e le modalità fotografiche, con cui il soggetto è stato fotograficamente reso, posto che la suggestione emozionale dell’opera fotografica deriva proprio dalla stretta connessione esistente tra il soggetto fotografato, ovviamente tridimensionale, e le particolari modalità con cui lo stesso viene reso nell’immagine fotografica bidimensionale. Peraltro la creatività, idonea a conferire all’opera fotografica valore artistico, da un lato, non coincide con il concetto di creazione, originalità e novità assoluta, ma si riferisce alla personale ed individuale espressione di un'oggettività, appartenente alle categorie elencate nell’art.1 L. 633/1941, di guisa che è sufficiente la sussistenza di un atto creativo, anche minimo, dall’altro lato, non è costituita dall'idea in sè, ma dalla forma della sua espressione, cioè dal modo con cui l’idea si concretizza nel mondo esteriore [...]” e che dunque “Non vi è alcun dubbio che l’opera fotografica in questione presenti un rilevante tasso di creatività […]”.

In conclusione, dunque, la Corte ha deciso che l’opera di Valerio Loi “Human Feelings as Drugs” debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia

La Ferrari GTO è un'opera tutelata dal diritto d'autore.

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Il Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di impresa ha recentemente accodato la tutela del diritto d’autore al modello di Ferrari forse più conosciuto ed apprezzato di sempre: la 250 GTO.

Il numero, 250, sta per la cilindrata di ciascun cilindro in centimetri cubi del motore V12 3000 cc di cilindrata. GTO sta per "Gran Turismo Omologata". Tale sigla non verrà poi utilizzata per parecchi anni fino alla presentazione nel 1984 della Ferrari 288 GTO.

Per il Collegio, interpellato dalla Ferrari per difendere il modello da un tentativo di riproduzione da parte di una società di Modena, «la personalizzazione delle linee e degli elementi estetici, hanno fatto della Ferrari 250GTO un unicum nel suo genere, una vera e propria icona automobilistica». «Il suo valore artistico – prosegue l’ordinanza - ha trovato oggettivo e generalizzato riconoscimento in numerosi premi e attestazioni ufficiali», in «copiose pubblicazioni» e nella riproduzione «artistica» su monete e sotto forma di «sculture», periodicamente esposte nei musei.

Il Tribunale ha così emesso un’ordinanza che inibisce alla società specializzata in tuning di riprodurre la forma della 250GTO in rendering e in modelli di autovetture.

L’azienda resistente era infatti pronta a lanciare sul mercato una decina di repliche della 250 GTO, al prezzo circa di 1 milione di euro l’una, che riproducevano (aggiornandolo) il leggendario modello anni ’60.